Per parlare, in epoca di dilagante analfabetismo costituzionale, della modalità di accesso in Magistratura, non sembra superfluo muovere dall’art. 106 della Carta fondamentale: “Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso”.

Che si tratti di un serio presidio alla (auspicabile) indipendenza di chi è chiamato a giudicare, oppure di un male necessario, il fatto è che, allo stato, del concorso non sembra potersi fare a meno.
Ci si aspetterebbe, allora, che anche chi ha scarsa considerazione per i concorsi e ancor minor simpatia per i magistrati, se proprio non vuol impegnarsi nel migliorare i meccanismi che regolano la suddetta “competizione”, quantomeno non dia il suo contributo per peggiorarli.
E invece così non è (come ci proponiamo di dimostrare).
Le recenti modifiche legislative hanno indicato obiettivi, introdotto divieti, “liberalizzato” e, al contempo, reso (in astratto) più selettivo l’accesso in Magistratura, ma non hanno inciso beneficamente sui concreti meccanismi concorsuali.
Anzi.
La normativa che regola l’attività della Commissione, come ormai accade sempre più frequentemente, è il frutto di una -quasi mai felice- stratificazione legislativa.
L’ultimo intervento, la legge 111/07 (modificativa del D. L.svo 160/06), ha in parte -ancora una volta- innovato la disciplina relativa ai lavori della Commissione esaminatrice.
Da qui conviene prendere le mosse per un’analisi del “sistema patchwork” conseguente a non sempre coordinati e ragionati interventi del legislatore.
L’art. 6 dell’ordinamento giudiziario, come da ultimo modificato, prevede:
-al comma primo, che l’attività della Commissione (correzioni scritti e prova orale) abbia termine entro nove mesi a far tempo dal primo giorno successivo a quello nel quale si sono concluse le prove scritte,
-al comma terzo, che la Commissione tenga dieci sedute a settimana (cinque mattutine e cinque pomeridiane),
-al comma quarto, che, se del caso, siano fissate sedute supplementari,
-al comma settimo, che la Commissione esamini gli elaborati di non meno di 600 candidati al mese e che proceda all’esame orale di non meno di 100 candidati al mese.
I termini sopra indicati, pur dovendo essere considerati meramente ordinatori (benché il mancato rispetto degli stessi sia presidiato dalla “eventuale” sanzione della destituzione del presidente della Commissione), sembrano dettati più dall’esigenza della classe politica di comunicare ai cittadini che è stato fatto il possibile per accorciare i tempi di “reclutamento” dei nuovi magistrati, che dalla preoccupazione di mettere a punto un meccanismo normativo in grado di rendere possibile una effettiva riduzione dei tempi.
Anche in questo delicato settore, dunque, le recenti modifiche hanno obbedito alla logica delle leggi-manifesto, leggi, vale a dire, con le quali si lanciano messaggi (slogan ?) politico-elettorali, si promettono soluzioni e -va da sé- si prefigurano eventuali “responsabili” del (prevedibile) fallimento. 
La soluzione effettiva del problema interessa poco, evidentemente, il moderno legislatore.
L’importante è ottenere il consenso, mostrando buone intenzioni: il fallimento sarà addebitabile a chi non ha saputo/voluto applicare le salvifiche norme.
E allora conviene esaminarle “da vicino” (come abbiamo cominciato a fare) queste risolutive “novità”, che avrebbero dovuto donare efficienza all’arrugginito meccanismo di “arruolamento” dei magistrati.
Procediamo, quindi, per quanto possibile, con metodo, affiancando alla illustrazione delle evidenti pecche del sistema, qualche “modesta proposta” (ci sembra, di buon senso) per ovviare alle più macroscopiche illogicità, che si traducono -inevitabilmente- in disfunzioni.
Esaminiamo dunque i tempi, i modi, i presupposti e i criteri messi a punto per la gestione del complicato meccanismo concorsuale.
I TEMPI
Ripartendo dall’art. 6, non possiamo fare a meno di osservare che stabilire in astratto un termine finale per la conclusione dei lavori della Commissione (non si sa se comprensivo del periodo in cui i commissari devono godere delle ferie, periodo obbligatoriamente decorrente dall’ultimo giorno di correzione degli scritti), senza “agganciarlo” al numero dei candidati i cui elaborati dovranno essere corretti, per quel che riguarda gli scritti, o al numero di candidati effettivamente da esaminare, per quel che riguarda le prove orali appare un’opzione, che definire arbitraria, sarebbe eufemistico.
In realtà la norma appare afflitta da un “tasso di irragionevolezza” talmente elevato da far dubitare della sua compatibilità costituzionale. Oltretutto, se anche, per assurdo, si volesse applicare alla lettera la calendarizzazione indicata nel comma settimo del predetto articolo, non è affatto certo che i termini potrebbero essere rispettati, atteso che, pur se si correggessero nell’unità di tempo prevista (il mese) gli elaborati di 600 candidati, ciò non garantirebbe affatto il “risultato finale”, nell’eventualità in cui il numero complessivo dei candidati che hanno portato a termine tutte e tre le prove scritte fosse superiore al numero desumibile dalla moltiplicazione di 600 per il numero di mesi necessari per correggere tutti gli elaborati consegnati.
La previsione poi di dieci sedute a settimana (cinque al mattino e altrettante al pomeriggio) comporta, evidentemente, che i lavori della Commissione si dovrebbero tenere dal lunedì al venerdì. Ciò determinerebbe per i commissari residenti fuori Roma (la stragrande maggioranza) la necessità di viaggiare la domenica pomeriggio (dalla residenza a Roma) e il venerdì notte (da Roma alla residenza).
Considerando che non pochi commissari abitano a centinaia di chilometri di distanza dalla capitale, ne consegue che costoro potrebbero trascorrere a casa e in famiglia solo poche ore a settimana; il che determinerebbe, ovviamente, dimissioni “a catena”.
A ciò si potrebbe ovviare se il numero dei commissari fosse tale da render possibile un ritmo di “rotazione” tale da assicurare congrui periodi di riposo a ciascun commissario dopo alcune settimane di lavoro assolutamente “piene”.
Ma il numero tale non è.
Il divorzio del legislatore dall’aritmetica sembra, dunque, definitivo.
Così stando le cose, le “sedute supplementari” che, a mente del quarto comma dell’art. 6, il presidente potrebbe fissare, dovrebbero tenersi nei giorni di sabato e/o domenica: trattasi di una disposizione non meritevole di specifico commento (oltretutto sembrerebbe arduo ipotizzare che il personale amministrativo, che necessariamente deve assistere la Commissione, possa esser disponibile nei due predetti giorni della settimana).
Indicare, poi, “in astratto” il numero di elaborati che ogni mese devono essere corretti (600) e il numero di candidati che, agli orali, deve essere esaminato, appare frutto di un approccio meramente quantitativo ad una attività (la valutazione della preparazione di un candidato) che, viceversa, va condotta con parametri squisitamente qualitativi; e invero:

a) quanto agli elaborati scritti, il tempo necessario per la lettura/correzione dipende, innanzitutto, dalla lunghezza del “tema” e dal grado di intelligibilità della grafia; in secondo luogo, dal margine di convergenza/divergenza di opinioni tra i componenti dei singoli collegi e delle sottocommissioni (non a caso la normativa prevede, in ipotesi di dissenso anche di uno solo dei commissari, la convocazione della intera Commissione in seduta plenaria). In realtà, gli elaborati relativi al medesimo candidato devono essere corretti separatamente, ma contestualmente, dai tre collegi (diritto civile, penale, amministrativo) operanti in seno alla sottocommissione; terminata la lettura, i tre collegi si riuniscono per la valutazione di idoneità e la eventuale attribuzione dei voti (art. 5 commi VI e VII ).

E’ dunque evidente (e la legge sul punto rischia addirittura di esser chiara) che il candidato –per quel che riguarda la prova scritta- debba risultare idoneo in ciascuna materia singolarmente, ma altrettanto chiaro è che poi si debba far luogo ad un momento di valutazione “supercollegiale”, non perché si possa procedere a compensazione di voti tra quelli attribuibili ai vari elaborati (somma dei “punti” e susseguente divisione per numero delle materie, con individuazione della “media”, come pure è possibile in taluni esami/concorsi), ma, evidentemente, per una valutazione complessiva e comparativa dei tre scritti, i quali, in un certo senso, devono, se necessario, essere interpretati gli uni attraverso gli altri. Così, a mero titolo di esempio, se, in un elaborato, il candidato ha fatto ricorso a una espressione impropria o ambigua, essa potrà essere adeguatamente compresa (e “ortopedicamente” intesa) alla luce di analoga espressione adoperata -in senso proprio questa volta- in un altro dei suoi scritti.

b) quanto alle prove orali, un semplice calcolo aritmetico dimostra la irraggiungibilità del “livello di produttività” auspicato dal legislatore. Infatti: considerando che le materie in cui il candidato deve essere esaminato sono sedici (quindici materie giuridiche, oltre la lingua straniera), ipotizzando (per difetto) un tempo medio di 10 minuti per materia e di 15 per la lingua, aggiungendo 15 minuti per adempimenti tecnici, si giunge alla conclusione che, per ciascun candidato, non possono essere impiegate meno di tre ore. A ciò va aggiunto il tempo necessario alla Commissione (non prevedibile ex ante) per deliberare, l’interruzione per la colazione, un congruo intervallo (cinque, dieci minuti) tra l’esame di un candidato e quello successivo. Tutto ciò premesso, si giunge alla conclusione che, con orario dalle 8,30 alle 19, non potranno essere esaminati più di tre candidati al giorno, e, dunque, circa 60 al mese (3 candidati x 5 giorni x 4 settimane). Ciò senza voler considerare le eventuali assenze per malattia.

La recente normativa, dunque -almeno a nostro parere- non ha né semplificato, né razionalizzato, né -di fatto- velocizzato i meccanismi di selezione nell’ambito del concorso. Si è limitata a indicare obiettivi irraggiungibili. Non sappiamo se si tratti di una scelta dettata dalla mala fede o dalla assoluta ignoranza dei tempi e dei modi di un meccanismo che pure si ha la pretesa di “riformare”.
Il legislatore, viceversa, ha rinunziato a intervenire su altri, fondamentali aspetti organizzativi, con riferimento ai quali, qualche modifica “a costo zero” pur avrebbe potuto essere introdotta.
I MODI
Per l’art. 7 comma III RD 15 ottobre 1925 n. 1860 “è …consentito di consultare i semplici testi dei codici, delle leggi e dei decreti dello Stato”.
Al proposito si deve osservare che si tratta di precetto inapplicabile, dal momento in cui, non solo tutti i codici in commercio, ma anche la Gazzetta ufficiale riporta, ormai, oltre al semplice testo della norma, note che consentono al lettore di orientarsi tra le successive modifiche ed integrazioni delle disposizioni e di individuare, attraverso appositi richiami, quelle altre rilevanti nella stessa materia.
In presenza dunque di un palese “scollamento” tra norma e realtà, ciascuna Commissione deve individuare una “sua” soluzione.
L’esperienza insegna che, in genere, vengono ammessi quei testi contenenti note di rinvio e raccordo (in modo da consentire anche la ricostruzione “storica” della stratificazione normativa), nonché note relative alla indicazione di dispositivi della Corte costituzionale che abbiano inciso sulla esistenza o sul contenuto della norma, con esclusione, ovviamente, della riproduzione di massime, parti motive di sentenze, schemi ricostruttivi o indicativi di percorsi di ragionamento e/o argomentazione ecc.
Questa, ad esempio, la scelta adottata dalla Commissione di concorso a 500 posti indetto con DM 27.2.2008 (c.d. “concorsone”).
Si tratta di una scelta di buon senso -ci pare- ma, appunto in quanto tale, di una scelta estemporanea e che non assicura parità di trattamento tra chi ha partecipato a una prova concorsuale e chi ad altra.
Per di più, non esiste un limite numerico all’introduzione di volumi.
Ogni candidato, pertanto può servirsi di quanti codici vuole. Occorre solo che non siano commentati, né corredati di note, schemi e rinvii, come sopra intesi.
Ebbene, calcolando (prudenzialmente) che ciascun candidato rechi con sé una decina di testi, si giunge alla conclusione che, nei locali nei quali si svolgono le prove, vengono introdotte alcune decine di migliaia di volumi.
E’ di tutta evidenza quanto sia difficile e gravoso, in tali condizioni, il compito di controllare i singoli volumi, allo scopo di verificarne la conformità alle norme concorsuali, atteso che tale verifica deve avvenire “in concreto”, vale a dire controllando -volume per volume- che non vi siano annotazioni, alterazioni, fogli aggiunti ecc..
La soluzione sarebbe a portata di mano se solo il Ministero fornisse ai concorrenti i testi da adoperare. Il candidato dovrebbe accedere ai locali privo di qualsiasi testo e dovrebbe trovare sul suo banco le raccolte di leggi e i codici ammessi. Ciò, oltretutto, garantirebbe la assoluta par condicio tra tutti i partecipanti al concorso.
Ovviamente i temi da assegnare dovrebbero tener conto dei testi messi a disposizione dei candidati.
E’ da considerare che la spesa iniziale da sostenere per predisporre il materiale da concedere in uso ai candidati sarebbe ampiamente compensata dal risparmio che deriverebbe per l’Amministrazione in conseguenza della cessata necessità di ospitare per tre giorni le centinaia di unità di personale necessarie per effettuare il controllo codici.
Indubbiamente alcune case editrici di testi giuridici e codici non gioirebbero per l’introduzione di una tale modifica, ma noi ancora ci illudiamo che le norme debbano mirare ad assicurare l’interesse pubblico, non quello di alcuni.
Innovazione positiva, invece, è stata quella che ha chiamato a far parte della Commissione gli avvocati (in numero di tre, cfr, art 5 comma I bis).
Sarebbe però opportuno che i tre professionisti (individuati, se possibile, tra rappresentanti della classe forense del sud, del centro e del nord del Paese) fossero scelti in modo da assicurare la presenza di un civilista, un penalista e un amministrativista.
I PRESUPPOSTI
Come è noto, a seguito delle recenti modifiche, per il concorso in Magistratura non è previsto alcun limite di età. Si sono così visti non pochi candidati ultracinquantenni e qualche candidato ultrasessantenne.
E’ inoltre da aggiungere (e ricordare) che la prova concorsuale in questione è stata “ridisegnata” come “concorso di seconda fascia”; vale a dire che ad esso non si accede più semplicemente con la laurea in giurisprudenza, ma occorre che il candidato sia munito di ulteriore titolo (diploma di scuola di specializzazione, abilitazione ed esercizio della professione forense o della funzione di magistrato onorario, dottorato di ricerca, servizio presso la P.A. ecc.).
Il concorrere delle due condizioni (eliminazione del limite di età e introduzione della necessità di titolo professionale aggiuntivo) ha portato, però, a un complessivo scadimento del livello medio di preparazione.
La conclusione, solo apparentemente paradossale, è viceversa -a parere di chi scrive- ampiamente giustificata dalla natura stessa delle prove che il candidato è chiamato a sostenere. Egli deve infatti dimostrare una conoscenza essenzialmente teorica degli istituti giuridici, dovendo impostare la sua preparazione principalmente su base manualistica, con il successivo, necessario approfondimento attraverso lo studio di opere monografiche e della giurisprudenza. Né va dimenticato che, nella fase orale, il concorrente deve essere in grado di rispondere a domande che “spaziano” in ben 16 materie.
Ebbene, solo chi, avendo acquisito una solida e continuativa abitudine allo studio -serio e severo- possa adeguatamente fronteggiare tal tipo di difficoltà, sembra avere concrete possibilità di “superare la prova”. Viceversa chi, ormai avanti negli anni, abbia, a seguito di inevitabili scelte professionali, necessariamente settorializzato la sua preparazione, avrà certamente maggiori difficoltà a recuperare sia il tempo che la necessaria elasticità mentale, oltre alla versatilità psicologica, per potersi misurare con un compito intellettualmente tanto gravoso.
I CRITERI
In sede di prova orale, come è noto, per alcune materie è previsto voto “singolo” (es. diritto penale), per altre è previsto voto “per gruppo” (es. diritto civile ed elementi di diritto romano, ovvero diritto amministrativo, diritto costituzionale e diritto tributario, ecc.).
In tal modo il candidato riporta 10 voti (oltre alla idoneità/inidoneità nella lingua straniera), ma in realtà, in conseguenza dei previsti “accorpamenti”, è esaminato, come si è detto, in 16 materie.
Orbene, poiché, appunto, in sede di prova orale, la Commissione deve procedere alla valutazione “globale” del candidato, sembrerebbe quanto mai opportuno che essa abbia la possibilità di giudicare comparativamente -e dunque unitariamente- il predetto per gruppi di materie omogenee. Sarebbe dunque necessario –a nostro parere- un maggiore accorpamento tra le materie e, al contempo, anche un diverso accorpamento tra le stesse, fermo restando che, all’interno del singolo “gruppo di materie”, l’esame, come già oggi avviene, ben può essere condotto da commissari diversi (es., uno per ciascuna materia del “gruppo”: solo il voto sarà unico e, dunque, frutto della media dei voti -questa volta, possibile- delle diverse materie).
In dettaglio:

  1. Il diritto costituzionale potrebbe formare gruppo unico con il diritto comunitario. La prova in queste materie dovrebbe essere svolta per prima, in quanto il candidato dovrebbe essere valutato, innanzitutto, alla luce della sua conoscenza dei principi fondamentali, ad un tempo, normativi ed ermenuetici, che costituiscono la base logico-giuridica dell’intero ordinamento e contribuiscono alla costruzione di quella koinè giuridica europea, che, ormai, deve permeare ogni ramo del diritto. Attraverso l’esame in queste due materie, potrebbero essere “toccati” anche argomenti di diritto internazionale pubblico, il quale potrebbe essere, a tal punto, anche eliminato, come materia a sé stante,
  2. il diritto civile, il diritto penale e il diritto amministrativo, che sono le materie nelle quali il candidato si è dovuto cimentare in sede di prova scritta, non dovrebbero entrare a far parte di alcun “gruppo di materie”. Così il voto in diritto civile non dovrebbe essere “mediato” da quello in diritto romano, mentre il diritto amministrativo dovrebbe, come del resto risulta da quanto premesso, essere oggetto di isolata valutazione.
  3. le residue materie civilistiche (elementi di diritto romano, diritto commerciale e diritto internazionale privato) potrebbero essere considerate, ai fini della valutazione, un’ unica materia, naturalmente con un valore ponderale più forte per il diritto commerciale. Dovrebbe poi essere normativamente chiarito che le domande aventi ad oggetto il diritto romano devono consentire al candidato di dare dimostrazione di conoscere ed aver compreso la origine e l’evoluzione storica (sia pure per sommi capi) degli istituti giuridici,
  4. le materie processualistiche civili (procedura civile e diritto fallimentare) potrebbero dar luogo a unica valutazione (con valore ponderale preminente per la procedura civile),
  5. alla procedura penale potrebbe essere affiancato il diritto penitenziario, che attualmente non è previsto tra le materie di esame (con espressione dunque di unico voto); ciò in ragione della connessione di tale ultima branca dell’ordinamento con la fase esecutiva del processo penale; in proposito non va dimenticato che il diritto penitenziario rappresenta materia di diretta applicazione del magistrato ordinario (se, ovviamente, destinato a un Ufficio di sorveglianza).

Sembrerebbe poi opportuno eliminare il requisito della soglia minima di punteggio complessivo (scritti + orali), attualmente fissata (art. 1 comma V), come è noto, in punti 108, apparendo logico pretendere che il candidato raggiunga semplicemente (almeno) la sufficienza in tutte le materie o gruppi di materie.
Ma dove, quanto a criteri valutativi, la nuova normativa raggiunge abissi di irragionevolezza è nell’apprezzamento della prova di lingua straniera
La normativa vigente, infatti, parzialmente innovando rispetto a quanto previsto dal D. Lsvo 5.4.2006 n. 160 (che aveva introdotto l’obbligo di sostenere un colloquio in una delle cc.dd. “lingue comunitarie”), stabilisce che il candidato deve superare una prova in una delle seguenti lingue straniere: inglese, spagnolo, francese o tedesco.
Il nuovo art. 1 del predetto D. Lsvo, come modificato dalla legge 30.7.2007 n. 111, stabilisce, tra l’altro, al comma quinto “Conseguono l’idoneità i candidati che ottengono non meno di sei decimi in ciascuna delle materie della prova orale……e un giudizio di sufficienza nel colloquio sulla (sic!) lingua straniera prescelta”.
L’unica possibile interpretazione di tale norma è nel senso che la prova di lingua deve ritenersi dirimente, in quanto il candidato che risulti inidoneo in inglese, spagnolo, francese o tedesco -per ciò solo- non risulta “vincitore” del concorso, anche se, per avventura, abbia riportato il massimo dei voti nelle residue materie (scil. nelle materie giuridiche). 
Peraltro, la valutazione relativa alla prova di lingua deve essere espressa solo con il giudizio di sufficiente/insufficiente.
Tutto ciò, da un lato, impedisce qualsiasi graduazione (da sufficiente a ottimo, evidentemente) in caso di esito positivo, dall’altro, non consente operazioni di “compensazione su base numerica” con altre materie.
E’ stato già detto, infatti, che la vigente normativa prevede, in sede di esame orale, che alcune materie siano accorpate; conseguentemente il voto attraverso il quale si esprime la valutazione della Commissione risulta, in tali casi, dalla media dei voti attribuiti per le singole materie che concorrono a formare il “gruppo”.
Tale operazione, ovviamente, non può esser posta in essere per quel che riguarda le lingue straniere, con la conseguenza che, come premesso, la eventuale insufficienza “linguistica” dovrebbe comportare la bocciatura del candidato, che, a tal punto, dovrebbe addirittura interrompere la prova di esame subito dopo l’esito infausto del colloquio con il Professore di lingua.
Così stando le cose, appare del tutto evidente che una incisiva modifica normativa sarebbe, sul punto, quanto mai opportuna.
E invero, la conoscenza di una lingua straniera dovrebbe rappresentare un “valore aggiunto” nella preparazione di un candidato. Pertanto, posto che un livello elementare di conoscenza di una delle quattro principali lingue europee appare indispensabile (livello che potrebbe essere comprovato documentalmente, es. imponendo al concorrente di produrre un attestato rilasciato da un Istituto linguistico qualificato), il colloquio dovrebbe tendere a verificare quelle situazioni di “eccellenza linguistica”, che poi dovrebbero essere valorizzate al momento della valutazione finale e, quindi, della compilazione della graduatoria.
Si vuol dire che la buona conoscenza di una lingua straniera ben potrebbe fruttare al candidato uno “scatto” in classifica, se il legislatore stabilisse che esso rappresenti punteggio aggiuntivo nell’ambito della globale valutazione (non solo tecnico-professionale, ma anche culturale) del futuro magistrato.
In tale ottica, dovrebbe esser consentito al concorrente che ne faccia richiesta di essere esaminato anche in più di una lingua, con conseguente ulteriore ricaduta sulla sua posizione in graduatoria.
Prima della modifica apportata dalla legge del 2007, d’altra parte, era previsto che il voto relativo alla lingua straniera fosse, come i voti nelle altre materie, espresso in decimi e si sommasse a quello complessivo attribuito al candidato.
E’ di tutta evidenza che, con l’auspicato assetto normativo (che in parte riprodurrebbe quello immediatamente previgente), potrebbero essere raggiunti tre obiettivi, che renderebbero più logico e funzionale l’inserimento della prova di lingua straniera nel concorso in Magistratura.
E invero:
-il candidato sarebbe invogliato a completare adeguatamente, anche sul “versante linguistico”, la sua preparazione,
– i Docenti di lingue straniere (che la legge prevede siano di livello universitario) potrebbero graduare adeguatamente il loro giudizio sulla preparazione dei candidati,
– si eviterebbe di conferire una sorta di “diritto di veto” ai predetti componenti della Commissione, i quali, da un lato, integrano “in soprannumerola Commissione (art 1 comma sesto del D.Lsvo citato, come modificato dalla successiva legge), dall’altro, come evidenziato, possono (potrebbero) paradossalmente determinare la bocciatura di candidati, non particolarmente “ferrati” in una delle quattro lingue sopra indicate, anche se eccellenti nelle materie giuridiche.

Nel 1792 Jonathan Swift scrisse il paradossale pamphlet Una modesta proposta: per evitare che i figli degli Irlandesi poveri siano un peso per i loro genitori o per il Paese e per trasformarli in un beneficio per la comunità”.
Suggeriva di nutrire generosamente i bambini sino all’età di un anno e quindi di venderli ai ricchi proprietari terrieri perché li mangiassero.
Ciò avrebbe, da un lato, consentito di frenare l’esplosione demografica del proletariato irlandese, dall’altro, avrebbe contribuito al miglioramento dei rapporti tra i coniugi (poveri), dal momento che i mariti avrebbero avuto maggior considerazione per le loro mogli, in quanto indirette produttrici di reddito.
La nostra proposta al legislatore è, se possibile, ancora più modesta e, a ben vedere, meno paradossale.
Introduca, se può, le minime migliorie dettate dal buon senso, lasciando perdere i grotteschi empiti di efficientismo aziendalistico.
Per il resto, si astenga dal legiferare “in profondità”, per non rischiare di peggiorare (come ha dimostrato di saper fare benissimo, in questo e in altri campi) una situazione che, sul piano normativo, è già confusa e, su quello organizzativo, difficilmente gestibile.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *