Eccoci all’ultima puntata di uno degli esperimenti più scioccanti della storia della psicologia: l’esperimento carcerario del dottor Zimbardo tenutosi alla Stanford University.
In origine l’esperimento avrebbe dovuto durare 14 giorni, ma la situazione estremamente violenta che si era creata obbligò ad una chiusura molto prematura.

Prima di passare alla conclusione facciamo un breve riassunto. Vi era stato prima un sospetto di evasione che aveva addirittura spinto il dottor Zimbardo a chiedere aiuto a reali strutture di detenzione, l’infondatezza del sospetto creò poi molte ritorsioni sugli innocenti detenuti. Era poi entrato in scena un prete che aveva proposto alle famiglie di rivolgersi ad un avvocato, proprio come si trattasse di detenuti veri; dopo di che arrivò effettivamente il legale, ed eccoci così al sesto e ultimo giorno.

Il sesto giorno. La commissione di rilascio
Il sesto giorno Zimbardo decise di condurre davanti ad una “Commissione di Rilascio” tutti coloro che ritenevano di avere dei buoni motivi per essere rilasciati. Questa commissione era composta da segretari del dipartimento di psicologia e dottorandi, ed era diretta da un ex detenuto vero.
Ormai l’esperimento era diventato un vero e proprio gioco di ruolo, non sembrava più importante il motivo per cui era stato ideato, quello che importava era la sua rappresentazione.
Durante le udienze uscì fuori che ciascuno di questi ragazzi avrebbe preferito essere rilasciato rinunciando ai soldi guadagnati fino a quel momento (come se dovessero pagare una cauzione, quando in realtà quei soldi se li erano pienamente guadagnati).
Eppure quando alla fine delle udienze la commissione disse ai ragazzi di ritirarsi nelle loro celle nel frattempo che decidevano cosa fare, ubbidirono tutti, quando a questo punto avrebbero semplicemente potuto dire che volevano rinunciare all’esperimento e tornarsene direttamente a casa. Si consideravano dei detenuti in gabbia, che avevano perso la capacità di opporsi, e che dovevano aspettare il verdetto della corte per non peggiorare legalmente la loro situazione.
Durante queste udienze accadde qualcos’altro di interessante: il vero ex detenuto, nel nuovo ruolo di responsabile della commissione si comportò in modo molto severo, e quando, a fine udienze, uscì da questo ruolo si sentì molto male rendendosi conto di aver avuto gli stessi atteggiamenti del responsabile della commissione di rilascio che aveva per 16 anni respinto la sua richiesta. Ancora una volta possiamo notare come sia vero che entrando in un ruolo si assumano comportamenti adeguati a quel ruolo
Questo giorno fu comunque l’ultimo per questo esperimento che in quanto ad etica era andato troppo in là.

La fine dell’esperimento
L’ultimo giorno ci furono una serie di incontri, prima con tutte le “guardie”, poi con tutti i “prigionieri” e poi con tutte le “guardie” e i “prigionieri” assieme. I finti prigionieri manifestarono una grande gioia al fatto che l’esperimento fosse concluso, mentre le guardie non ne furono felici, del resto tra queste nessuna si presentò mai in ritardo, nessuna si assentò per malattia o andò via in anticipo, nessuna chiese un pagamento extra per il “lavoro” fuori orario, e ovviamente nessuna si ritirò dall’esperimento. Appare chiaro come un ruolo importante e privilegiato possa diventare o creare un personaggio desiderabile dal quale sia difficile uscire.
Di questi incontri ne furono fatti diversi, sia per aiutare i ragazzi che avevano a fare altrettanto e soprattutto per discutere tutti insieme su quali insegnamenti poter trarre dall’esperienza appena vissuta per non cadere più nell’errore di farsi trascinare dalla situazione in comportamenti.

Morali dell’esperimento
Come già accennato nella prima puntata, questo esperimento nacque con l’intento di verificare se realmente il carcere fosse un’istituzione educativa, piuttosto che violenta.
Una degli aspetti cari al dottor Zimbardo era cercare di capire cosa sarebbe potuto accadere a delle persone per bene (quali in teoria dovrebbero essere dei poliziotti) inserite in un contesto potenzialmente violento. Vince il bene o vince il male?
Da questo esperimento risultò che il carcere crea due effetti principali: fa sentire i detenuti impotenti e disumanizzati, e trasforma i carcerieri in carnefici sadici e persecutori. Sembra ovvio che questo è ben lontano da un sistema educativo.
Per quanto personalmente creda nell’esistenza di situazioni che, soprattutto se nuove e sconosciute (almeno nelle dinamiche), siano capaci di portare le persone dal bene al male e che probabilmente il carcere sia una di quelle, non è nelle mie intenzioni discutere né sull’eticità dell’esperimento, né sulla sua validità; il mio obiettivo è di riflettere sul crearsi dei ruoli e dei personaggi nelle diverse situazioni, che siano esse reali o virtuali, potenziali o artificiali, proprio per comprendere come farvi fronte.
In questo esperimento abbiamo quindi verificato come sia facile e automatico per ogni individuo impersonare il ruolo in cui è entrato; e come vengano messi in atto comportamenti adeguati a questo; infatti le guardie, per fare un esempio, sapevano già quali punizioni dare.
Inoltre si evidenzia come gli individui non si rendano conto dei ruoli che vivono e di quanto questi influiscano sui loro comportamenti.

Guardie e prigionieri sotto la lente di ingrandimento
Per quanto riguarda le guardie, Zimbardo ci indica che c’erano tre tipologie: quelle severe, ma corrette; quelle “buone”, che concedevano pochi favori e non punivano; e quelle autoritarie e “fantasiose” nelle punizioni (queste di notte, pensando di non essere riprese dalle telecamere, arrivarono a commettere abusi sempre più ignobili, anche di natura sessuale).
Questi tre tipi di guardie sono proprio i tre personaggi tipici di guardie che possiamo trovare nei film, nei libri. Sono quindi convinta che ognuna di queste persone sorteggiata a vestire il ruolo di guardia, abbia deciso che tipo di guardia essere, facendo quello che loro suggeriva il personaggio che avevano deciso di essere in quella situazione, personaggio probabilmente preso da quelli già disponibili nella società o comunque molto simile a uno di questi.
Ad esempio, tra le guardie ce ne era una che i prigionieri avevano soprannominato John Wayne, in quanto aveva modi brutali da macho; questo ragazzo, obbligato quindi al ruolo di guardia, aveva scelto di impersonarlo col personaggio da lui scelto alla John Wayne; nessuno infatti gli aveva detto di comportarsi in tale modo, e niente l’obbligava, era semplicemente un personaggio creato da lui per quella nuova situazione.
Anche per i “prigionieri” valgono le stesse considerazioni: tra questi ci furono diversi, ma tipici, modi di comportarsi da prigioniero. Alcuni si ribellarono, altri stettero male, e altri ancora si comportarono da prigionieri modello (uno di quest’ultimi fu ad esempio soprannominato “sarge”, cioè sergente).

La testimonianza dell’ex soggetto 416
Due mesi dopo questo esperimento, il ragazzo che aveva portato il numero 416, quello che fu messo nella cella di isolamento per tre ore, lasciò una testimonianza, una lettera che inviò a Zimbardo: mentre era in carcere, si stava rendendo conto che stava perdendo la propria identità, perché lui ormai era il numero 416.
In quest’ultima testimonianza non solo vi è la prova di come sia facile entrare in completamente in un ruolo in pochissimo tempo (meno di 6 giorni), ma si è anche avuta la conferma di una teoria che avevo già riportato su questo giornale, ovvero di come l’individuo diventa ciò che gli altri lo considerano: poliziotto, delinquente, drogato, disadattato, pazzo.

The experiment, il film
Ho iniziato a vedere “The Experiment”, il film del 2001 di Oliver Hirschbiegel basato su tale esperimento, con scetticismo, pensando che fosse soltanto un film denuncia sull’eticità di alcuni esperimenti, e sul cinismo di alcuni studiosi. Non manca, certo, questo tipo di denuncia, ma è invece sconvolgente l’incredibile somiglianza con i fatti realmente accaduti (solo sul finale un po’ romanzata). Usando il suo punto di vista, il regista ha sapientemente sottolineato gli aspetti più salienti:

– quanto siano importanti le interazioni nello sviluppo di certi ruoli, sia tra i gruppi sia intergruppo. Uno dei poliziotti “buoni”, ad esempio, decide di farsi rispettare usando metodi duri a causa dell’interazione con gli altri poliziotti con i quali non vuole fare la figura del debole.
– quanto sia immediata l’entrata in un ruolo: alle guardie basta solo guardare i vestiti che dovranno indossare per catapultarsi nel ruolo.
– quanto l’entrata in un ruolo sia influenzata da immagini stereotipate della società, ad esempio i poliziotti si divertono a passare il manganello sulle sbarre delle celle, proprio come si vede nei film americani.
– come i ruoli influenzino le decisioni e i comportamenti dell’individuo. A parte i diversi comportamenti che assumeranno i ragazzi (sottomessi o autoritari) a seconda che siano prigionieri o guardia. Uno dei prigionieri, per fare un esempio, ha già un altro ruolo in sé: è un giornalista in cerca di scoop, e in questo suo ruolo di giornalista decide di fare di tutto, comportandosi in determinati modi, pur di procurarsi uno scioccante articolo.
– quanto il ruolo assunto possa influenzare o dar vita a nuovi personaggi: uno dei poliziotti incomincia a sentirsi sempre più “tosto” e incomincia a esercitarsi allo specchio in mosse da duro, cambiando modo di parlare, di guardare e di muoversi.
– quanto ogni ruolo possa essere influenzato dai personaggi o dai ruoli già esistenti nella vita degli individui prima dell’esperimento, ad esempio il personaggio “Sarge” è presente anche nel film e in questo è realmente un militare, come per sottolineare quanto un personaggio possa influenzare il comportamento adottato in un ruolo.

Insomma, quanto ho riscontrato passo dopo passo nell’esperimento del dr. Zimbardo, con mia grande sorpresa è stato anche riportato e riassunto nel film “The Experiment”, nel quale viene però sottolineato il ruolo socialmente stereotipato degli sperimentatori, eticamente opinabili, che farebbero di tutto in nome della scienza.
Insomma, questo film da un lato si rende conto di quanto i ruoli siano precari e socialmente costruiti, ma al tempo stesso non è immune dalla consolidazione di questa costruzione.

Una questione su cui riflettere
Non è da ignorare che per poter vivere “bene”, per parlare con la gente, per sopravvivere in questo mondo, bisogna adeguarsi a un certo modo di vivere e di vedere le cose, e decidere quali pensieri fare propri e quali no, e soprattutto su quali costruire la propria irrinunciabile coerenza.
Questa non vuole essere una critica, anzi trovo che sia importante crearsi uno o più personaggi in cui credere, ma vuole essere un punto di riflessione, che vuole sostenere come l’uomo, per quanto influenzato dalla società, possa reagire ad essa una volta comprese le dinamiche di certi meccanismi sociali e situazionali. L’uomo, cosa più importante, è in realtà libero da quella che crede la prigione più inespugnabile, ovvero se stesso: siamo tutti liberi di decidere in cosa credere, siamo liberi di cambiare se vogliamo, perché siamo liberi di scegliere chi e cosa essere. (fine terza e ultima parte).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *