Il recente via libera all’iter delle riforme costituzionali, dato dal governo Letta tramite il ministro per le riforme Quagliariello, induce a qualche riflessione.

Si parla di un’architettura della nostra Costituzione fondata sull’equilibrio tra i diversi organi dello Stato. In verità il sistema realizza un complesso meccanismo di vasi comunicanti che sembra consentire anche un fisiologico prevalere di una o dell’altra parte. Talché quando un potere dimostri di non essere più all’altezza del proprio compito viene come esautorato da un altro ma il meccanismo non resta mai bloccato a favore di uno solo specie se questi dia poi pessima prova di sé.

A questo proposito, nella storia della repubblica abbiamo assistito dapprima ad un prevalere del Parlamento con il suo complesso meccanismo legislativo, poi al vantaggio del governo grazie allo strumento dei decreti legge, per di più rafforzati dalla richiesta della fiducia e da ultimo alla vittoria del Presidente della repubblica che ha messo in riga i primi due imponendo loro la propria volontà.

Quest’ultima fase ha ringalluzzito i fautori del presidenzialismo portandoli a sostenere che un sistema presidenziale in Italia già c’è. L’affermazione è sostanzialmente corretta ma non tiene conto dell’attuale meccanismo di autoregolazione che può consentire in un prossimo futuro il nuovo prevalere di altro organo costituzionale, laddove l’uomo forte non si dimostri una scelta assennata.

In realtà sembra che, dopo i disastri della seconda guerra mondiale, i nostri padri costituenti siano stati animati dalla diffidenza verso ciascun potere dello Stato, piuttosto che dall’equilibrio tra di essi.

La diffidenza verso il Parlamento, sul quale sarebbe incardinato il sistema costituzionale, si manifesta con l’imposizione di un ripetuto palleggiamento dell’iter legislativo che dovrebbe assicurare almeno un’approfondita riflessione prima dell’approvazione di ogni norma. La conseguenza è però che un provvedimento non diventa legge se non quando entrambi i rami si siano faticosamente messi d’accordo sul medesimo, identico testo.
Il sospetto verso il presidente della repubblica si incarna nella sua mera funzione di garanzia e rappresentanza pur se gli sono attribuite mirate facoltà che nelle situazioni più delicate offrono poteri di sicuro rilievo.
Il presidente del consiglio è infine l’organo sul quale si è maggiormente concentrata la circospezione costituzionale, facendone un primus inter pares con scarsi poteri di preminenza se non dovuti al prestigio personale.

Un discorso a parte merita l’altro fondamentale attore del sistema costituzionale, il popolo, nei confronti del quale, nonostante le apparenze, è riservata eguale se non maggiore, diffidenza.
In verità l’articolo 1 della Costituzione ci dice espressamente che la sovranità appartiene al popolo e questo dovrebbe risolvere ogni questione fin dalla culla. Sennonché lo stesso costituente si affretta a precisare che l’esercizio della sovranità è espressa nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione.

Peraltro la parola sovranità lascia qualche spazio all’interpretazione, infatti non si parla di potere del popolo ma di sovranità. Si potrebbe osservare che anche il monarca è sovrano ma poi il potere spesso appartiene ad altri organi dello Stato.
E’ comunque facile constatare la sfiducia dei padri costituenti verso il popolo, che si evince ad esempio da una sostanziale inefficacia del sistema legislativo ad iniziativa popolare, da un meccanismo referendario a quorum molto elevato e che non prevede la facoltà consultiva, dalla possibilità che gli eletti contravvengano apertamente alle promesse e agli schieramenti con i quali si erano proposti al giudizio popolare.

Pensandoci bene, questa diffidenza non è affatto ingiustificata se si pone mente ai cattivi risultati che il popolo ha dato spesso, a cominciare da quella volta che preferì mandare libero Barabba e sulla croce Gesù. Più di recente le ascese al potere di molti dittatori sono state spesso accompagnate da un concreto ma disastroso consenso popolare.
Per altro il rapporto eccessivamente stretto tra un leader e il suo popolo è stato sempre ricercato dagli uomini forti ma bollato come populismo, quale degenerazione della volontà popolare.
Il problema è ulteriormente complicato, ai giorni nostri, dal sempre più invadente e spesso determinante potere o meglio strapotere dei media. Televisioni, radio e giornali (per quei pochi che li leggono), nonché da ultimo internet hanno assunto la veste di opinion maker che troppo spesso gestiscono e indirizzano la mente popolare verso il consenso voluto. Per cui ormai una notizia non esiste se non ne parlano i media e soprattutto è importante o meno a seconda che ne diano maggiore o minore rilievo.

L’argomento diventa inquietante e pone seri quesiti sulla bontà del modello democratico che ha validità solo se il suo momento culminante, cioè l’espressione di un voto, non si riduca all’apposizione di una croce in base al sentito dire ma sia invece conseguenza di un’autodeterminazione che nasca dal felice e raro fondersi di cultura, informazione, raziocinio e carattere. Poiché tale eventualità è appunto difficile a verificarsi, qualche prevenzione verso il voto popolare non è certo scevra da giustificazioni.
Nutriti quindi dalla grande sete scaturita dalla scarsità dei diritti più elementari i costituenti hanno ideato un sistema, diffidente verso tutti, fatto di pesi e contrappesi ma capace di darsi costantemente nuovo equilibrio.

Non siamo di quelli che ritengono la nostra costituzione la più bella del mondo né che sia inemendabile ma crediamo che la soluzione adottata nel ’47 sia ancor oggi assai saggia e vada mantenuta anche se migliorata, senza però bloccare il sistema a stabile vantaggio di uno dei poteri specie se questo dovesse poi dimostrare la propria inadeguatezza o pericolosità.
Per altro, gli elementi di perplessità rispetto all’imminente riforma costituzionale sono molteplici perché non sembra che i nuovi padri costituenti e loro consulenti siano sempre alla stregua di quelli del ’47 e tanto meno pare che tra di essi ci sia una univoca visione della migliore riforma, per di più non si può dire che i tempi ristretti, dovuti ad una contingente situazione storica (o meglio di cronaca), siano il miglior auspicio per una adeguata innovazione.
Gli attuali costituenti ci dicono infine che qualunque sarà la maggioranza che approverà la riforma, le modifiche saranno comunque sottoposte alla valutazione popolare con il referendum previsto dall’art 138.

Il popolo spesso sbaglia, come dicevamo più sopra, ma è anche dotato di una sorta di saggezza che alla fine lo anima e, pur dopo qualche errore, emerge. E non è difficile rilevare come, in maggioranza, gli italiani manifestino la stessa diffidenza che ha guidato i nostri padri costituenti del ’47.
Vedremo quindi cosa sarà proposto alla bradipica assennatezza popolare e come si esprimerà in un referendum che per fortuna non prevede un quorum minimo di partecipanti eliminando quel furbesco escamotage che consente di sommare la mancata partecipazione degli impossibilitati e degli ignavi a quella di coloro che si oppongono all’abrogazione di una legge.

A far previsioni in genere si sbaglia ma è probabile che l’iconoclasta ostilità verso tutto quello che viene prodotto dai nostri politici, unita a una non ingiustificata e memore avversione nei riguardi del potere forte, porterà ad una bocciatura della riforma se impostata per bloccare il sistema a vantaggio stabile di una parte.
Certo maggior consenso troverebbero mirate innovazioni limitate a pochi punti: ad esempio una riduzione del numero dei parlamentari e un superamento dell’attuale bicameralismo perfetto attraverso la sana suddivisione delle materie legislative tra Camera e Senato riservando a quest’ultimo, formato in prevalenza da esponenti dei maggiori enti territoriali, le tematiche appunto attinenti ad essi. Non senza però prevedere la possibilità di tornare alla doppia lettura in casi particolari o di richieste numericamente qualificate.

Anche su altri aspetti ci sarebbe da migliorare come ad esempio sul referendum abrogativo, al fine di dare maggior voce alla volontà popolare da estendere alle ipotesi consultive e riducendo il quorum in coerenza con la diminuita partecipazione al voto che per altro ci avvicina alle maggiori democrazie occidentali.
E’ invece probabile che una riforma a favore di un potere più o meno forte sia destinata alla bocciatura referendaria facendo tornare tutto da capo.

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