Premiato col Leone d’argento a Venezia70, Alexandros Avranas il regista greco, di 37 anni, nel suo “Miss Violence” ha descritto una famiglia borghese contemporanea e primitiva, dominata da una figura maschile la cui ferocia si consuma nell’ambito delle mura domestiche.

Girato praticamente quasi tutto in interni, protagonista è una famiglia composta da  padre, madre, tre figlie, di cui due adolescenti (una, Angeliki, si uccide alla prima scena del film), e unafiglia adulta, madre di  due bambini  a sua volta, un maschio e una femmina.

Si svolge ad Atene, città che non sapremmo riconoscere, in una  indeterminatezza spazio temporale che trasporta lo spettatore ben oltre la semplice cronaca del fallimento della famiglia borghese. E’, in realtà, un film politico  sulla società greca, e su  quella attuale in  genere, anche se la politica non è mai neppure vagamente evocata.

Gli interni della casa sono borghesi, e asettici. Tutto è chiaro, lineare, senza ornamenti. La ricerca curata del colore (il tortora e il verde acqua dei tappeti, delle sedie, dei vestiti), negli abiti e negli arredi corrisponde anche ai  personaggi del film: sono tutti biondi, o rossi. Pelli chiare, occhi celesti, vitrei. Anche i personaggi marginali sono biondissimi. Bisogna veramente saperlo che è un film greco: a giudicare dagli interni e dagli attori potrebbe essere tedesco, appunto, danese, o di qualche altro paese nord europeo, certo non mediterraneo. Sono  volti da pubblicità,  avvolti da una luce chiarissima, forse è quella di una clinica. Proprio dentro  questo  packaging  patinato  si sviluppa quello che la tragedia  greca antica  non aveva mai descritto.

All’attore principale, Themis Panou, è andata la  Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile. Bestia nei panni di un signore mite, privo di aggressività, capace di manifestare  amore e cura nei confronti  della famiglia, interpreta il patriarca prevaricatore  di  un nucleo familiare universale. Se  femminicidio doveva essere descritto, in questo film se ne tracciano i moventi, assieme a quelli della  crisi generata dai nuovi controllori all’interno di società  chiuse, comunitariste, che escludono l’altro,  e che fanno della chiusura all’esterno, l’unico fine. Il film  inizia  con la  maniglia di una porta che si apre,  per svelare un interno da pubblicità  e finisce con “ chiudi la porta a chiave” per ritrovare i la tranquillità della  propria chiusura e continuare a separarsi dall’esterno.

Poco importano le strutture istituzionali  sane che continuano a operare (forse) e a  fare il loro dovere, in modo meccanico. Si può pensare  al partito di ispirazione neonazista, Alba Dorata che in Grecia – come anche in altri paesi europei –  assume  dimensioni sempre più ampie, e che ha  fatto della chiusura il principale punto di forza, e della cura e soccorso di chi è in difficoltà  i mezzi principali di affermazione e di manipolazione?

Così  questo contemporaneo uomo primitivo, che  ci si affretta a chiamare “orco” per poterlo sentire davvero lontano, si  prende cura  di quello strano nucleo familiare, dove la moglie è comprensibilmente depressa dopo il suicidio della figlia,  e i ragazzi,  che va  a prendere regolarmente, vanno a scuola con profitto.  Spesso – non sempre – sembrano proprio normali. Anche se curiosamente il  primo segnale offerto dal regista sta proprio nella troppa normalità di come  è vissuto il suicidio di Angeliki.  L’orrore che si consuma  in questi interni viene  svelato con  una lentezza  snervante, attraverso dettagli impercettibili e poi sempre più chiari. Le porte spesso inquadrate  chiuse, punteggiatura ossessionata del mondo senza  relazioni, si aprono solo per mostrare un quadro da pubblicità.

Una delle scene più violente – dove la violenza e la tragedia  è solo nella dose di  verità   di ciò che sta accadendo, cioè  nella rete di imposizioni, manipolazioni, e incastri – dura  l’intero spazio della canzone di Toto Cutugno “ Sono un Italiano”. E’ talmente forte il contrasto tra la canzonetta (forse richiamo all’Italia e alla sua pornografia), e la scena domestica e quotidiana che si arriva a provare disagio fisico.

Tutto accade in poco spazio, i corpi sono spesso inquadrati senza testa,  gli sguardi sono progressivamente annacquati da terrore. Sembrerebbe che il regista austriaco Michael  Haneke abbia  fatto scuola: da “Niente da Nascondere” ( altro film “politico” in  interno borghese)  e “Nastro Bianco” (il sadismo di un gruppo sociale –  nella Germania nazista-  chiuso in se stesso ossessionato dalla supremazia del controllo), ma se in Haneke c’è una sorta di disprezzo  per questa  umanità,  Avranas ha  abdicato ogni forma di giudizio. E’ tutto negli occhi  degli spettatori che non sono mai guidati se non dallo sguardo –  finale –  della bambina.

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