La Corte costituzionale si è trovata a difendere più volte, in quest’ultimo semestre, il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario, da parte del potere legislativo: al di là della relativa disamina, è interessante analizzare la strumentazione ermeneutica che i giudici delle leggi hanno messo in campo.

Nella sentenza 22-29 maggio 2013 n. 103, la Corte ha esaminato uno dei più frequenti ambiti di ingerenza del Legislatore, quello delle norme retroattive – anche di interpretazione autentica – in cui la retroattività non trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale». “Una tale finalità della disposizione censurata non emerge né dai lavori parlamentari, né dal suo intrinseco contenuto normativo”, scrive in proposito la Corte, che offre quindi un primo appiglio interpretativo su cui lavorare, per “divinare” quando il Legislatore operi nel suo ambito e quando invece ne decampi.

In effetti, a partire dalla sentenza 22 gennaio 1957, n. 28 la Corte costituzionale ha insegnato che il rispetto del potere discrezionale del legislatore presuppone che «le norme siano dettate per categorie di destinatari e non ad personam»: è l’unica fattispecie in cui lo scrutinio del rapporto tra principio di legalità e generalità/astrattezza della norma giuridica non trasmoda in «valutazioni di natura politica, o quanto meno un sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento, che alla Corte costituzionale non spetta esercitare, anche a norma dell’art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87» (ibidem).

L’esistenza di “figure sintomatiche” del vizio di violazione del principio di tipicità della legge, già in passato è stata sfiorata dalla Corte costituzionale. La problematica fu affacciata[1] in ambedue le ordinanze di remissione della prima sezione civile della Corte di cassazione, sull’articolo 7 del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80, nel testo risultante dalla legge di conversione 28 maggio 2004, n. 140: per la Sezione il decreto-legge faceva «sorgere il dubbio (trovante riscontro nella scansione degli eventi sintetizzati nelle premesse in fatto) di una indebita intenzione di incidere sulla concreta fattispecie sub iudice (di cui è cenno nella sentenza 525/00 della Corte costituzionale), intenzione che, ove sussistente, attesterebbe, ben oltre l’insussistenza del requisito in disamina, la sua impropria invocazione» (ordinanza 7144/05). Se configura eccesso di potere legislativo – sindacabile dalla Corte fino a dar luogo a pronuncia di incostituzionalità adottata con sentenza n. 128 del 2008 – l’attribuzione al legislatore ordinario del potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie (sentenza n. 171 del 2007), non può non esserlo l’esercizio del potere legislativo in violazione del canone di cui alla sentenza 22 gennaio 1957 n. 28.

Ma è anche vero che la legge ad personam può essere catalogata, in via di prima approssimazione, come una species del genus “legge provvedimento”. La sentenza della Corte costituzionale 9 aprile-9 maggio 2013, n. 85 – sul cosiddetto “caso ILVA” – offre, in proposito, un interessante squarcio sulla sua giurisprudenza pregressa su tale genus, oltre a qualche spunto utile per affrontare la species.
            Al § 12 di tale articolata pronuncia, si ricorda che “la prevalente dottrina e la giurisprudenza di questa Corte non considerano la legge-provvedimento incompatibile, in sé e per sé, con l’assetto dei poteri stabilito dalla Costituzione”. Rispetto ai due fronti di possibile “ingerenza” del cattivo esercizio della funzione legislativa, quello amministrativo e quello giurisdizionale, la sentenza si sofferma anzitutto sul primo, ribadendo che «nessuna disposizione costituzionale […] comporta una riserva agli organi amministrativi o “esecutivi” degli atti a contenuto particolare e concreto» (già così in sentenza n. 143 del 1989), a differenza di quanto previsto dalla Costituzione della V Repubblica francese (la quale, peraltro, ha visto, negli ultimi anni, una giurisprudenza costituzionale sul punto via via meno rigorosa).

Con riferimento al secondo fronte, quello che paventa il pericolo di ingerenze del Legislativo nella funzione giurisdizionale, la Corte ha ricorda poi di aver già stabilito che non può essere consentito al legislatore di «risolvere, con la forma della legge, specifiche controversie e di vanificare gli effetti di una pronuncia giurisdizionale divenuta intangibile, violando i princìpi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e concernenti la tutela dei diritti e degli interessi legittimi» (sentenza n. 94 del 2009, conforme a sentenza n. 374 del 2000).

Si tratta di una statuizione che la Corte costituzionale affianca a quelle delle due principali Corti sovranazionali europee, senza commenti; eppure la discrasia è di tutta evidenza, quanto meno nell’ampiezza delle deroghe e della stessa diversità tra le “vie di fuga” prescelte[2]. Nella sentenza n. 93 del 2010 la Corte costituzionale citò giurisprudenza della Corte di Strasburgo sul divieto di interferenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia destinata a influenzare l’esito della controversia, fatta eccezione che per motivi imperativi di interesse generale: in quel caso, però, la ricognizione dei precedenti europei, effettuata dalla Corte costituzionale italiana, fu più articolata, facendosi carico di una lettura che salvaguardasse la possibilità di sanare le discrasie tra le varie giurisprudenze[3].

Recentissimo è un caso in cui lo scrutinio di costituzionalità è stato svolto per il tramite dello scrutinio di “convenzionalità” (il che avviene a seguito di questione incidentale che denunci del contrasto fra la norma impugnata e l’art. 6 della CEDU, norma interposta per valutare la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.)[4]: nella sentenza 1-4 luglio 2013, n. 170 è stato sostenuto che “lo stato del giudizio e il grado di consolidamento dell’accertamento, l’imprevedibilità dell’intervento legislativo e la circostanza che lo Stato sia parte in senso stretto della controversia, sono tutti elementi considerati dalla Corte europea per verificare se una legge retroattiva determini una violazione dell’art. 6 della CEDU”. Si tratta di figure sintomatiche di illegittimità dell’ingerenza, che per la prima volta la Corte costituzionale “considera vincolanti anche per l’ordinamento italiano” pur se derivanti da pronunce (sentenze 27 maggio 2004, Ogis Institut Stanislas contro Francia; 26 ottobre 1997, Papageorgiou contro Grecia; 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society contro Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del nord) non direttamente rivolte all’Italia, in quanto “contengono affermazioni generali, che la stessa Corte europea ritiene applicabili oltre il caso specifico”. Ne è derivato che – sia per violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., sia per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU – la citata sentenza ha caducato una normativa che, ampliando il novero dei crediti erariali assistiti dal privilegio nell’ambito delle procedure fallimentari, regolava rapporti di natura privata tra creditori concorrenti di uno stesso debitore, con effetti retroattivi, fino ad influire sullo stato passivo esecutivo già divenuto definitivo, superando così anche il limite del giudicato “endo-fallimentare”.

Le frontiere tra i tre poteri “da equilibrare” si cumulano, infine, quando si versa in un ambito di giustizia amministrativa, dove vengono in campo sia la sostituzione all’atto amministrativo con la legge, sia la sottrazione della sua sindacabilità al giudice amministrativo. In tali casi la Corte osserva che «in assenza nell’ordinamento attuale di una “riserva di amministrazione” opponibile al legislatore, non può ritenersi preclusa alla legge ordinaria la possibilità di attrarre nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidate all’azione amministrativa […] con la conseguenza che il diritto di difesa […] non risulterà annullato, ma verrà a connotarsi secondo il regime tipico dell’atto legislativo adottato, trasferendosi dall’ambito della giustizia amministrativa a quello proprio della giustizia costituzionale» (sentenza n. 62 del 1993)[5].

Si tratta del massimo livello cui perviene la “giurisdizionalizzazione” della fattispecie della legge provvedimento, il cui contenuto, a monte, sarebbe di diritto sostanziale: come si ricorda nella sentenza n. 103 citata, “tale contenuto viene ad incidere su rapporti ancora in corso, vanificando il legittimo affidamento”, nel caso concreto quello di “coloro che hanno acquistato beni immobili”. In effetti, l’ingerenza del Legislatore nel Giudiziario[6] nasce come ombra proiettata sul processo da una regolamentazione in sé stessa sbilanciata del rapporto sostanziale, la cui (nuova) disciplina può ledere l’affidamento – legittimamente sorto nei soggetti destinatari – quale principio connaturato allo Stato di diritto. Né è un caso che la sua tutela, nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sia stata originata da una giurisprudenza di diritto sostanziale (la violazione del primo protocollo della Convenzione, sul pacifico godimento dei beni)[7], per poi dilagare sub specie di violazione dell’articolo 6 paragrafo 1 della Convenzione (che, ponendo i principi della preminenza del diritto e dell’equo processo, comportano il divieto di interferenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia destinata a influenzare l’esito della controversia, fatta eccezione che per motivi imperativi di interesse generale)[8].

Occorrerà quindi ora un contenzioso di secondo grado: in assenza di amparo, il nostro ordinamento pretende che, per difendere la situazione giuridica soggettiva lesa, si vada da un giudice e gli si chieda di sollevare incidente di costituzionalità. Qui si svilupperà quello che la sentenza del caso ILVA chiama “un rigoroso scrutinio di legittimità costituzionale” cui la legge provvedimento deve soggiacere «per il pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare e derogatorio» (già così in sentenza n. 2 del 1997 e, in senso conforme, in sentenza n. 20 del 2012). La Corte costituzionale ha inoltre precisato che “la legittimità costituzionale di tale tipo di leggi va valutata in relazione al loro specifico contenuto, con la conseguenza che devono emergere i criteri che ispirano le scelte con esse realizzate, nonché le relative modalità di attuazione (ex plurimis, sentenze n. 137 del 2009, n. 267 del 2007 e n. 492 del 1995)”.

L’assunto incisivamente affermato dalla Corte nel respingere le doglianze del giudice a quo è utilissimo a definire l’ambito di un terzo insieme, che era stato affacciato dall’ordinanza di rimessione: “nessuna delle norme qui censurate è idonea ad incidere, direttamente o indirettamente, sull’accertamento delle predette responsabilità, e che spetta naturalmente all’autorità giudiziaria, all’esito di un giusto processo, l’eventuale applicazione delle sanzioni previste dalla legge” (§ 8). La Corte costituzionale ci offre una panoramica exempli gratia di ciò che invece farebbe scattare l’incostituzionalità di una legge provvedimento: disposizioni che cancellassero una fattispecie incriminatrice o ne attenuassero le pene; disposizioni che contenessero “norme interpretative e/o retroattive in grado di influire in qualsiasi modo sull’esito del procedimento penale in corso, come invece si è verificato nella maggior parte dei casi, di cui si sono dovute occupare la Corte costituzionale italiana e la Corte di Strasburgo nelle numerose pronunce risolutive di dubbi di legittimità riguardanti leggi produttive di effetti sulla definizione di processi in corso”. Tutti casi, questi, in cui entriamo di peso nell’ambito della massima legge ad personam (o contra personam), cioè quella che entra a piedi uniti in un processo (spesso penale) in corso per alterarne l’esito.

Particolarmente stringata appare però l’indicazione della metodologia di analisi contenuta nella sentenza sul caso ILVA: poiché gli atti legislativi normalmente non contengono motivazioni, «è sufficiente che detti criteri, gli interessi oggetto di tutela e la ratio della norma siano desumibili dalla norma stessa, anche in via interpretativa, in base agli ordinari strumenti ermeneutici» (sentenza n. 270 del 2010). Rispetto agli ordinari strumenti ermeneutici, la sentenza sul caso ILVA appare tralasciare quella ricerca sugli atti preparatori che, assai spesso, offre uno squarcio di luce quanto meno sulla voluntas del Legislatore:  ricerca[9] con cui la Corte già esercitò il suo scrutinio nella citata sentenza n. 128. Un’omissione, questa del caso ILVA, che la Corte stessa ha prontamente recuperato, dopo meno di un mese, quando, a motivo dell’incostituzionalità pronunciata con la citata sentenza n. 103, ha rilevato che la necessaria finalità della disposizione censurata – di tutela di principi, diritti e beni di rilievo costituzionale – “non emerge né dai lavori parlamentari, né dal suo intrinseco contenuto normativo”.

Certo, la pluralità delle voci che si alternano, nell’agone parlamentare, rende particolarmente difficoltoso attribuire valenza unitaria ad elementi anfibologici, addotti da una parte o dall’altra a scopo di polemica politica. Negli anni in cui dal consociativismo si è passati ad un sistema politico “divisivo”, l’accusa di proporre leggi ad personam è stata lanciata frequentemente, nei confronti della maggioranza di turno. La “dimostrabilità” dell’accusa passa per elementi oggettivi che, nella lettura degli atti preparatori, possono essere argomentati assai meno con gli interventi svolti che con la “prova di resistenza” offerta dalle variazioni subite dal testo nel corso dell’iter parlamentare: esse rappresentano infatti una forma di alterazione “in vitro”, che consente una sorta di applicazione del “metodo sperimentale” al testo normativo.

Un esempio di tale sperimentazione può essere operato – a vicenda parlamentare conclusa, con la relativa legislatura –  sul  disegno di legge n. 1880, depositato al Senato[10] (con il titolo “Misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, in attuazione dell’articolo 111 della Costituzione e dell’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”) il 12 novembre 2009. Fino a quando si dovesse “inseguire” la polemica politica, anche interna al dibattito, non si andrebbe molto lontano[11]. Ma mentre la tesi e l’antitesi si alternavano nel dibattito, il testo del disegno di legge registrava una prima torsione: la disposizione recante la norma transitoria – pianamente descritta nella relazione introduttiva con le parole “le nuove norme si applicheranno nei processi in corso alla data di entrata in vigore della legge, ad eccezione dei processi che pendono avanti alla Corte d’appello o alla Corte di Cassazione” (articolo 3 comma 2) – stavolta assumeva diversi contorni, atti a circoscrivere un (diverso) insieme[12] nel quale, però, ugualmente ricadeva un processo in particolare[13]. Rispetto ai diversi profili di incostituzionalità che il testo licenziato dal Senato sollecitava, con la sua norma transitoria[14], si registrò poi una seconda torsione in sede referente all’altro ramo del Parlamento: la legge stavolta avrebbe dovuto conseguire il risultato di una maggiore generalità, perché abbandonava nei fatti la norma cardine della versione del Senato (termine di durata dei processi) ed in compenso adottava una del tutto diversa misura di accelerazione procedurale, fondata sull’abbreviazione di taluni termini di prescrizione, per gli incensurati[15]. La consacrazione dell’effetto di torsione si ebbe con l’approvazione, il 13 aprile 2011 da parte dell’Assemblea della Camera, del nuovo titolo del disegno di legge, diventato “Disposizioni in materia di spese di giustizia, danno erariale, prescrizione e durata del processo”. L’eterogeneità della nuova disposizione – rispetto al testo iniziale – è dimostrata, quindi, dallo stesso intervento sostitutivo dell’epigrafe del testo: ma essa era la spia di una ben precisa metodologia, che aveva ispirato per l’intero corso i lavori parlamentari. Se si circoscrivono gli insiemi (invero assai diversi) delle varie versioni del Senato e della Camera che si sono susseguite, il punto di intersezione di tutte le varianti emendative si restringe parecchio.

Che questo sia stato il tentativo di evitare che dalla fruizione di una norma generale fosse sottratto un ben individuato soggetto[16], o che sia stato invece un tentativo di piegare la norma ad uno scopo non generale[17], è tutto sommato ininfluente: l’importante è la consapevolezza – che emerge da tutto l’iter parlamentare – che si andava a disciplinare anche quel processo e che si “difendeva” questa estensione ad ogni passaggio parlamentare. Nel mentre la legge si proclamava generale ed astratta, le sue molteplici torsioni venivano giustificate – in atti parlamentari – come rivolte ad un miglior “tailoring” dell’abito sull’unico corpo che interessava. Tanto basta a definire un testo del genere come privo della generalità e dell’astrattezza prescritta dal principio di legalità, in quanto l’occasio coincide con la ratio ed ambedue cospirano ad un risultato di mascheramento dell’intento “ad personam” della previsione.

Le vicende conclusive della XVI legislatura hanno risparmiato alla Corte di doversi confrontare con questa possibile fattispecie di ingerenza del potere legislativo nell’esercizio della giurisdizione. Ma le recenti, incisive sentenze sopra richiamate sono la spia di un interesse, che non può essere sottovalutato, del Giudice delle leggi per la genesi della legge: le modalità con cui si svilupperà, in futuro, ogni iter parlamentare, non potranno non risentirne.


[1] Poi, però, in ambedue i casi la problematica fu resa meramente servente rispetto ad altra questione; la stessa sentenza costituzionale invocata fu utile alla Corte remittente soprattutto per rivendicare il «rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (ciò che vieta di intervenire per annullare gli effetti del giudicato o di incidere intenzionalmente su concrete fattispecie sub iudice)» (sentenza 525/2000 cit.): tematica attinente al principio di legalità sostanziale (ovvero generalità ed astrattezza della norma superveniens) come precondizione dell’equità del giudizio, sulla quale incide anche l’abbondante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, citata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 311 del 2009 (cfr., per tutte, la sentenza Scanner de L’Ouest Lyonnais e altri contro Francia, del 21 giugno del 2007).

[2] La Corte costituzionale punta sul passaggio in giudicato della pronuncia giurisdizionale come limite invalicabile per qualsivoglia “ingerenza” legislativa sulla causa petendi, soprattutto se la avviene con l’emanazione di norme retroattive o comunque – pur se non configurate come retroattive in senso tecnico – applicabili alle disposizioni idonee a travolgere provvedimenti giurisdizionali definitivi (sentenza n. 364/2007); ciò perché, se vi fosse un’incidenza sul giudicato, la legge lederebbe i principi relativi ai rapporti tra poteri e le disposizioni relative alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (sentenze nn. 282/2005, 525 del 2000, 374 del 2000 e 15 del 1995). La giurisprudenza della Corte EDU ha invece fatto ricorso alle “impellenti ragioni di interesse pubblico” per eccettuare alcuni limitati casi all’operatività della regola secondo cui  il principio dello stato di diritto e la nozione di giusto processo custoditi nell’art. 6 CEDU precludono l’interferenza dell’assemblea legislativa nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia» (Corte EDU, sez. II, sentenza 14 dicembre 2012, Arras contro Italia; 7 giugno 2011, Agrati ed altri contro Italia; 21 giugno 2007, caso Scanner de L’Ouest Lyonnais e altri contro Francia). Quanto alla Corte di giustizia dell’Unione europea, essa si soddisfa nel richiedere che contro tutti gli atti, anche aventi natura legislativa, «gli Stati devono prevedere la possibilità di accesso a una procedura di ricorso dinanzi a un organo giurisdizionale o ad altro organo indipendente ed imparziale istituito dalla legge» (sentenza 16 febbraio 2012, in causa C-182/10, Solvay ed altri contro Région wallone).

[3] “Questa prassi può essere suscettibile di comportare una violazione dell’art. 6 della CEDU, risolvendosi in un’indebita ingerenza del potere legislativo sull’amministrazione della giustizia.(…) Ciò posto, occorre rilevare che la Corte di Strasburgo non ha inteso enunciare un divieto assoluto d’ingerenza del legislatore, dal momento che in varie occasioni ha ritenuto non contrari all’art. 6 della Convenzione europea particolari interventi retroattivi dei legislatori nazionali. La legittimità di simili interventi è stata riconosciuta, in primo luogo, allorché ricorrevano ragioni storiche epocali, come nel caso della riunificazione tedesca (caso Forrer-Niederthal contro Germania, sentenza del 20 febbraio 2003). (…) In altri casi, nel definire e verificare la sussistenza o meno dei motivi imperativi d’interesse generale, la Corte di Strasburgo ha ritenuto legittimo l’intervento del legislatore che, per porre rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata, aveva inteso con la legge retroattiva ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore” (Corte costituzionale, sentenza n. 93 del 2010).

[4] Le conseguenze dello scrutinio convenzionale si riverberano oramai quasi automaticamente sullo stesso giudizio di costituzionalità. Infatti la Corte costituzionale, con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha rilevato che l’art. 117, primo comma, Cost., ed in particolare l’espressione “obblighi internazionali” in esso contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost.. La conseguenza è che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.. La Corte costituzionale ha, inoltre, precisato nelle predette pronunce che al giudice nazionale, in quanto giudice comune della Convenzione, spetta il compito di applicare le relative norme, nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, alla quale questa competenza è stata espressamente attribuita dagli Stati contraenti. Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea, il giudice nazionale comune deve, pertanto, procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenzionale, fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica. Solo quando ritiene che non sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, il giudice comune deve sollevare la questione di costituzionalità, con riferimento al parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., ovvero anche dell’art. 10, primo comma, Cost., ove si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta. La clausola del necessario rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, dettata dall’art. 117, primo comma, Cost., attraverso un meccanismo di rinvio mobile del diritto interno alle norme internazionali pattizie di volta in volta rilevanti, impone infatti il controllo di costituzionalità, qualora il giudice comune ritenga lo strumento dell’interpretazione insufficiente ad eliminare il contrasto. Sollevata la questione di legittimità costituzionale, spetta alla Corte costituzionale il compito anzitutto di verificare che il contrasto sussista e che sia effettivamente insanabile attraverso una interpretazione plausibile, anche sistematica, della norma interna rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane dalla Corte di Strasburgo. La Corte dovrà anche, ovviamente, verificare che il contrasto sia determinato da un tasso di tutela della norma nazionale inferiore a quello garantito dalla norma CEDU, dal momento che la diversa ipotesi è considerata espressamente compatibile dalla stessa Convenzione europea all’art. 53. In caso di contrasto, dovrà essere dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione interna per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla invocata norma della CEDU.

[5] È evidente che le due procedure non sono esattamente fungibili, perché occorre trovare un atto amministrativo esecutivo della legge-provvedimento da impugnare e, poi, un giudice disposto a sollevare la questione di legittimità costituzionale, nella forma dell’incidente di costituzionalità.

[6] Per la quale v. anche la sentenza n. 209 del 2010, § 5.1 del Considerato in diritto.

[7] V. sentenza dell’allora seconda sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo, emessa il 19 ottobre 2000, nel caso Ambruosi contro Italia: per un commento, cfr. Fabio Buonomo, Borse di studio ai medici specializzandi: no del Senato alla compensazione delle spese nei procedimenti giudiziari in corso. La sentenza Ambruosi colpisce (anche se in ritardo), nell’edizione on line di Diritto & Giustizia del 24/10/2002.

[8] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza Sez. II 7 giugno 2011, Agrati ed altri contro Italia. Tale orientamento trova i suoi precedenti nei casi Scanner de L’Ouest Lyonnais e altri contro Francia del 21 giugno del 2007, Raffineries Grecques Stran e Stratis Andreadis contro Grecia del 9 dicembre 1994, e Zielinski e altri c. Francia, del 28 ottobre 1999, che censurano la prassi di interventi legislativi sopravvenuti, che modifichino retroattivamente in senso sfavorevole per gli interessati le disposizioni di legge attributive di diritti, la cui lesione abbia dato luogo ad azioni giudiziarie ancora pendenti all’epoca della modifica.Nel caso Zielinski e altri contro Francia, in particolare (come prima nel caso Papageorgiou contro Grecia, sentenza del 22 ottobre 1997), si è riaffermato il principio che nega ogni indebita interferenza del legislatore, fatta salva la sussistenza di «motivi imperativi di interesse generale». La giurisprudenza costituzionale italiana è passata dalla dipendenza da questi precedenti – la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa al caso Scanner de L’Ouest Lyonnais e altri contro Francia fu citata nella sentenza n. 93 del 2010, che ricordava come la Corte di Strasburgo avesse anche statuito che il requisito della parità delle armi comporta l’obbligo di dare alle parti una ragionevole possibilità di perseguire le proprie azioni giudiziarie, senza essere poste in condizione di sostanziale svantaggio rispetto agli avversari – all’autonomia, riposando oramai su un’accorta interpretazione dei parametri costituzionali nostrani: cfr. la sentenza 3-12 luglio 2013 n. 186 (§ 4.3 del Considerato in diritto), secondo cui “il legislatore statale ha creato una fattispecie di ius singulare che determina lo sbilanciamento fra le due posizioni in gioco, esentando quella pubblica, di cui lo Stato risponde economicamente, dagli effetti pregiudizievoli della condanna giudiziaria, con violazione del principio della parità delle parti di cui all’art. 111 Cost.”.

[9] Confronto, nei lavori preparatori della legge, tra la giustificazione della disposizione relativa al teatro Petruzzelli e riconoscimento che “la stessa è stata introdotta per risolvere una «annosa vicenda» e tutelare l’interesse ad una «migliore fruizione del bene da parte della collettività», così ammettendo non solo il difetto di collegamento con la manovra di bilancio, ma anche l’assenza di ogni carattere di indispensabilità ed urgenza con riguardo alla finalità pubblica dichiarata”.

[10] Nella sua relazione si leggeva, tra l’altro: “L’articolo 2 prevede l’estinzione dell’azione penale e, quindi, del processo, per violazione dei termini di ragionevole durata. La norma intende adeguare il sistema processuale alla citata Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articolo 6) e alla Costituzione (articolo 111, secondo comma) e contenere entro limiti fisiologici il contenzioso derivante dalle procedure di equa riparazione. Da molti anni, gli analisti registrano come in Italia il principio della ragionevole durata dei processi sia sistematicamente violato, al punto che il nostro Paese è quello che subisce il maggior numero di condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, con conseguenze molto severe, sia in termini finanziari che di immagine. Peraltro, il processo penale, oltre ad essere irragionevolmente lungo, è anche in molti casi privo di reale sostanza, come dimostra il numero sempre maggiore di reati dichiarati estinti per prescrizione. Ciò significa che l’organizzazione giudiziaria occupa una parte delle proprie risorse per celebrare processi privi di reale utilità, generando sfiducia nella certezza della pena e indebolendo la capacità della norma penale di operare come un deterrente. In tale contesto, si colloca il meccanismo di estinzione del processo, espressione di una moderna sensibilità giuridica e destinato ad attuare il principio della «durata ragionevole» nel processo penale. In alcuni casi, il diritto dell’imputato a non restare sotto la soggezione del processo per un periodo di tempo troppo lungo può essere pienamente soddisfatto prevedendo ex lege termini massimi di durata dei diversi gradi di giudizio, il cui superamento obbliga il giudice della fase a pronunciare una sentenza di non doversi procedere. In questo modo, il processo sarà definito prima che si verifichi la violazione del diritto alla ragionevole durata, sul presupposto dell’inattuabilità, o sopravvenuta carenza, dell’interesse all’esercizio dell’azione penale e, attraverso di essa, alla pretesa punitiva dello Stato. Questo meccanismo soddisfa, da un lato, l’aspettativa dell’imputato a che il processo si concluda entro una certa misura di tempo; dall’altro, l’aspettativa dell’apparato giudiziario a concludere i processi senza subire altri effetti che non siano la propria scarsa sollecitudine. Quando, però, il processo riguarda reati gravi o di allarme sociale, la sua durata massima non può essere determinata ex lege. Pertanto, il disegno di legge prevede che l’estinzione processuale opera solo nei processi relativi a reati puniti con pene inferiori nel massimo ai dieci anni di reclusione e sempreché non si proceda nei confronti di imputati recidivi o delinquenti o contravventori abituali o professionali (commi 1 e 5 dell’articolo 346-bis del codice di procedura penale, come introdotto dall’articolo 2 del presente disegno di legge). Al di fuori di questi casi, l’estinzione processuale non può operare in quanto prevale l’interesse all’accertamento delle responsabilità e all’applicazione della sanzione. Il rimedio al protrarsi del processo potrà, quindi, consistere soltanto nell’equo indennizzo.”.

[11] Nella seduta d’Assemblea del Senato n. 311 del 13 gennaio 2010, uno dei firmatari del disegno di legge dichiarava: “ricordo che, oltre a «quel cittadino», ce ne sono altri 60 milioni” (XVI lgs., Senato della Repubblica, 311ª Seduta, pomerid., 13 gennaio 2010, Assemblea – Resoconto stenografico, p. 53). Nella seduta d’Assemblea del Senato n. 311 del 13 gennaio 2010, il presidente della Commissione referente dichiarava: “voi vorreste una riforma valida per tutti i cittadini italiani tranne che per Silvio Berlusconi. Questa è la verità. Voi ci accusate di approvare delle norme ad personam, ma voi vorreste una norma contra personam, valida per tutti i cittadini italiani eccetto uno: Silvio Berlusconi” (XVI lgs., Senato della Repubblica, 311ª Seduta, pomerid., 13 gennaio 2010, Assemblea – Resoconto stenografico, p. 62). Nella seduta d’Assemblea del Senato n. 312 del 14 gennaio 2010, il sottosegretario di Stato per la giustizia, in sede di replica alla discussione generale sul disegno di legge, negò che l’obiettivo del provvedimento fosse quello di “una legge che serve al Premier”, ma al contempo sostenne che “soltanto una corsia privilegiata contra personam può garantire la celebrazione dei processi e permettere di arrivare ad una sentenza definitiva per i processi coperti da indulto, che sarebbero raggiunti al 99,9 per cento dalla prescrizione. Ciò, ripeto, se non ci fosse una corsia privilegiata contro una persona, se non ci fosse cioè una scelta predeterminata dell’ufficio giudiziario per arrivare a quel risultato” (XVI lgs., Senato della Repubblica, 312ª Seduta, antimerid., 14 gennaio 2010, Assemblea – Resoconto stenografico, p. 10).

[12] Nei processi in corso alla data di entrata in vigore della presente legge, relativi a reati commessi fino al 2 maggio 2006 e puniti con pena pecuniaria o con pena detentiva, determinata ai sensi dell’articolo 157 del codice penale, inferiore nel massimo a dieci anni di reclusione, sola o congiunta alla pena pecuniaria, ad esclusione dei reati indicati nell’articolo 1, comma 2, della legge 31 luglio 2006, n. 241, il giudice pronuncia sentenza di non doversi procedere per estinzione del processo quando sono decorsi più di due anni dal provvedimento con cui il pubblico ministero ha esercitato l’azione penale, formulando l’imputazione ai sensi dell’articolo 405 del codice di procedura penale, ovvero due anni e tre mesi nei casi di cui al comma 7 dell’articolo 531-bis del codice di procedura penale, introdotto dall’articolo 5 della presente legge, senza che sia stato definito il giudizio di primo grado nei confronti dell’imputato. Si applicano le disposizioni previste dal citato articolo 531-bis, commi 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 e 11. 2. Salvo quanto previsto al comma 1, le disposizioni di cui all’articolo 531-bis del codice di procedura penale non si applicano ai processi in corso alla data di entrata in vigore della presente legge.  3. Le disposizioni di cui all’articolo 4 si applicano anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della presente legge quando dal deposito della citazione a giudizio nella segreteria della competente sezione giurisdizionale sono trascorsi almeno cinque anni e non si è concluso il giudizio di primo grado.

[13] Desumibile dalle parole di un senatore, che interveniva in dissenso dal suo gruppo: “Credo molto francamente che la maggioranza abbia fatto un errore grave, che è quello di non ammettere pubblicamente che c’erano due obiettivi: quello, condiviso da tutti qui dentro, della ragionevole, certa e breve durata dei processi, e quello, che è diventato una specie di agenda nascosta, della tutela del presidente Berlusconi” (XVI lgs., Senato della Repubblica, 316ª Seduta, antimerid., 20 gennaio 2010, Assemblea – Resoconto stenografico, pp. 19-20).

[14] Audizione, in relazione all’esame della proposta di legge C. 3137, del professore Gaetano Azzariti, ordinario di diritto costituzionale presso l´università «La Sapienza» di Roma: “È indicata come disposizione transitoria, ma in realtà non è propriamente tale, perché definisce una norma speciale retroattiva, che è una questione diversa. Non si tratta, infatti, di una semplice disposizione transitoria in senso proprio, perché è diverso il termine. Come ben sapete, il termine previsto dal regime ordinario all’articolo 5, in primo grado, per gli stessi reati è di 3 anni, mentre la previsione della cosiddetta disposizione transitoria e di 2 anni o di 2 anni e 3 mesi, come richiamavo precedentemente. Questo aspetto è importante perché l’essere una norma non transitoria, ma derogatoria, per di più con carattere retroattivo, aggrava i dubbi avanzati da molti sulla presunta incostituzionalità della legge. È noto, infatti, che le norme derogatorie retroattive devono essere quanto meno soggette a uno scrutinio stretto di costituzionalità sotto il profilo del rispetto del principio di ragionevolezza ed eguaglianza” (Commissione giustizia della Camera dei deputati, seduta del 16 settembre 2010, resoconto stenografico).

[15] Il relatore della Camera, in sede di relazione orale all’Assemblea, dichiarava: “Se avessi voluto fare una norma ad personam, se avessi voluto determinare un risultato favorevole esclusivamente al premier, come incautamente si è continuato a dire anche negli ultimi giorni, sarebbe bastato soltanto lasciare il testo così come era uscito dal Senato. Quel testo sì avrebbe determinato un risultato assolutamente immediato a favore del Premier, ma così non è stato” (28 marzo 2011). Sempre nel medesimo intervento il relatore sosteneva: “Non si dica che questa norma favorisce il Presidente del Consiglio. (…) Per quanto riguarda, invece, il processo Mills, sfido chiunque a dimostrarmi che, da qua al gennaio dell’anno prossimo, del 2012, quando, comunque, il processo sarebbe prescritto in ossequio ai termini attuali, si riuscirebbe a fare il primo, il secondo e il terzo grado. Nel primo ne sono già passati almeno una buona decina di anni, come tutti sanno; qualcuno vuol dirmi che, da qui a gennaio, in 9-10 mesi, si riuscirebbe a concludere il primo grado, il secondo ed il terzo grado? Voi direte che, dal punto di vista mediatico, esiste un risultato popolare anche nel fatto che venga emessa, per esempio, la sola sentenza di primo grado. È possibile, se si dimentica, però, il portato della nostra Carta costituzionale. La Carta costituzionale non si invoca a piacere, ma si invoca sempre e, in essa, c’è l’articolo 27 che prevede una presunzione di innocenza fintanto che non venga emessa la sentenza definitiva. Una prescrizione, quindi, dichiarata, in primo, in secondo o in terzo grado, non sposta di una virgola l’applicazione giuridica di una terminologia che è già segnata in termini chiari; non sposta di una virgola il convincimento che, a tutto concedere, impugnante che sia il pubblico ministero nell’ipotesi di assoluzione in primo grado, o impugnante che sia l’imputato nell’ipotesi di condanna in primo grado, comunque porta ad una declaratoria di prescrizione. Questo è il dato di fatto. Anzi, si dovrebbe financo dire grazie all’introduzione di questa norma che evita di lavorare a vuoto su un processo che si sa, comunque, «fulminato» cronologicamente dall’effetto della declaratoria di prescrizione” (ibidem).

[16] Nella seduta d’Assemblea del Senato n. 315 del 19 gennaio 2010, un firmatario del disegno di legge dichiarava: “Voi non volete le leggi ad personam, volete le leggi contra personam” (Resoconto stenografico, p. 74). Nella seduta d’Assemblea del Senato n. 316 del 20 gennaio 2010, un altro firmatario del disegno di legge dichiarava: “questa legge per il Partito Democratico è giusta e condivisibile, se riguarda i cittadini di questo Paese; non va bene se fra questi c’è anche il presidente Berlusconi” (Resoconto stenografico, p. 11). Nella seduta d’Assemblea del Senato n. 316 del 20 gennaio 2010, il primo firmatario del disegno di legge, dichiarava: “Anche sul caso del presidente Berlusconi la Corte costituzionale, giorni fa, ha emesso una sentenza sul rito abbreviato che, come dice in un’intervista il presidente emerito della Corte costituzionale Capotosti, era direttamente applicabile e consentiva quindi delle eccezioni procedurali fondate. Non serviva e non c’è stato un decreto, che non sarebbe stato ad personam, per attuare la sentenza della Corte, che era effettiva, come dice anche Capotosti e tanta parte della dottrina. (…). A Milano alcuni togati non hanno applicato la sentenza della Corte, a dimostrazione che non ci sono leggi ad personam: c’è una giustizia contra personam” (Resoconto stenografico, pp. 17-18).

[17] Come tardivamente rilevato dal relatore della Camera, quando – cercando di correggere le sue affermazioni – dichiarava che non aveva voluto attribuire all’intento del Senato le sue considerazioni sul testo licenziato da quel ramo del Parlamento.

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