In origine era l’ “emendamento a scavalco”: se l’articolo 72, primo comma della Costituzione (“Ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa, che l’approva articolo per articolo e con votazione finale”) parla di votazione “articolo per articolo”, come si fa quando in un articolo c’è la spesa ed in un altro (magari molto lontano) c’è la copertura finanziaria?

Certo, in un Riksdag svedese o in un Bundestag tedesco non esisterebbe che la globalità dell’Assemblea non sentisse l’obbligo di due votazioni uniformi: passata la prima a maggioranza, nella seconda le opposizioni deporrebbero le armi e si unirebbero al voto di tutti. Ma l’Italia è la patria del garbuglio, l’ostruzionismo è dietro l’angolo e – se non ci fosse il benedetto “emendamento a scavalco” – rischieresti di giocare una rivincita (senza la bella, però!) nella seconda votazione: ecco quindi che le Presidente delle Camere, da tempo immemore, ammettono che un emendamento all’articolo x si concluda con le parole “e conseguentemente all’articolo y apportare le seguenti modifiche…”.

Poi arrivò l’emendamento sostitutivo di più di un articolo: era qualcosa di meno del maxi-emendamento, un po’ più pudìco perché non vi si collegava la questione di fiducia, ma sufficientemente sporco per consentire di stravolgere in Aula il testo licenziato dalla Commissione con un vero e proprio “contro-testo”. Avveniva quando il colpo a sorpresa, in referente, aveva prodotto un testo di legge un po’ troppo sensibile agli apporti delle opposizioni: in Aula, piuttosto che l’operazione chirurgica di asportazione degli elementi eterogenei, la maggioranza riallineata dal Governo presentava l’emendamento aperto dalle parole “sostituire gli articoli 1, 2, 3 …. con il seguente“, e tanti saluti all’articolo 72 Cost..

Una volta il presidente Ciampi fece un rilievo anche su questa sostanziale violazione della Costituzione, in un messaggio di rinvio alle Camere: tutti si cosparsero il capo di cenere e, passata la festa, lo santo tornò ad essere gabbato.

Poi si aprì la torrida stagione dei maxi-emendamenti: un emendamento sostitutivo dell’intero disegno di legge (quando di conversione del decreto-legge, la cosa era ancora più facile: lì si emenda l’ “articolessa” che contiene il rinvio all’allegato decreto). Il pudore della presidenza Casini, alla Camera, imponeva che lo si spezzasse in tre, ai fini dell’inevitabile questione di fiducia che il Governo poneva a corredo; ma era una convenzione – intrisa del classico gesuitismo ex dc – che, ad esempio, il Senato non ha mai seguito, e che ha perso forza anche a Montecitorio (perché tre sì e due no? E perché due, quando potrebbe essere uno soltanto?)…

La sentenza n. 32 del 2014, a firma Cartabia, ha visto la stessa Corte costituzionale inarcare il sopracciglio, dinanzi a queste tecniche: esse vengono presentate come anti-ostruzionistiche ma oramai, di fatto, comprimono lo spazio di dialettica parlamentare sperequando i rapporti tra potere legislativo ed esecutivo.

Eppure non avevamo ancora visto niente: l’emendamento 01.103 alla legge elettorale approvato il 21 gennaio 2015 dall’Assemblea del Senato (definito Expositum dal suo firmatario) ha impresso davvero un colpo di reni a questo virtuosismo redazionale, dal quale sarà difficilissimo riprendersi.

L’antefatto è noto: la bulimia emendatizia del gruppo di appartenenza di uno storico vicepresidente ha portato a sopra quota quarantamila il numero di emendamenti al cosiddetto Italicum, arrivato alla Camera alta da Montecitorio e portato in Aula senza relatore.

Nell’eterna rincorsa tra il gatto ed il topo, la tecnica antiostruzionistica conosce variopinti accorgimenti per violare il feticcio del voto emendamento per emendamento: tagliole da contingentamento, ghigliottine da chiusura della discussione, “canguri” da votazioni per parti separate. Mai però si era arrivato ad immaginare l’emendamento “premissivo” di un articolo, che dettando principi precludesse contenutisticamente gli emendamenti divergenti.

Questo il trucco del quale oggi parlano le cronache: l’articolo 1 della legge elettorale (che al momento detta principi generalissimi) viene arricchito – grazie all’Expositum – di una selva di prescrizioni, che “anticipano” come sarà il contenuto (ancora da votare) della legge nel suo prosieguo; avrà un premio di maggioranza, avrà capilista bloccati, avrà una quota di preferenze, ecc. ecc..

Naturalmente, il garante dell’uniformità del prosieguo del testo diventa la Presidenza dell’Assemblea, che dovrà dichiarare inammissibili – perché contrari ad una deliberazione già assunta, ai sensi dell’articolo 97 comma 2 del regolamento del Senato – tutti gli emendamenti che vanno in senso contrario. Il passo successivo potrebbe essere dare direttamente istruzioni agli uffici di redigere il testo come dettato nell’emendamento premissivo, e mandare tutti a casa (o, al più, rinviare l’appuntamento direttamente al voto finale sul testo di legge nel suo complesso).

Che cosa ha impedito che, abdicato il principio, si percorresse – già trent’anni fa – tutta la china verso l’odierna, inaudita aberrazione dell’Expositum? Non certo la morale, ché le fedine penali attestano sulla quantità industriale di pelo sullo stomaco dei parlamentari di Prima Repubblica. Neppure la paura di vedersi opporre lo stesso trucco dalla parte dei perdenti, visto che la conventio ad excludendum garantiva l’eternità al ceto di potere dell’epoca.

La nostra  spiegazione è di stampo soggettivo; l’ipotesi parte dal fatto che questo governo si è fatto un punto d’onore di non attingere, nella formazione dei gabinetti ministeriali, dal solito sottobosco di magistrati amministrativi ed ordinari. Pur non essendo stato fedele in toto a tale promessa, è però vero che Renzi ha attinto – in misura almeno quattro volte superiore al passato – alla carriera dei funzionari parlamentari. Una carriera che, quanto a competenza legistica, è immensamente superiore a chiunque altro, nel nostro Paese; una carriera che, da decenni, rappresenta la crema della selezione dei giurisperiti italiani, in uno Stato che non ha la fortuna di attingere da un’ENA alla francese.

Ma anche una carriera diversa dai consiglieri di Stato, che da oltre un secolo fronteggiano la tutela del “bene della vita” (dalla materia appaltistica ai rapporti di pubblico impiego), guardando in faccia problemi e contenziosi, prefigurando soluzioni ed individuando princìpi cui rivolgersi, in assenza di un codice del procedimento amministrativo. Mentre Silvio Spaventa lottava per la costituzione della IV sezione del Consiglio di Stato, il consigliere Gaetano Mosca si collocava fuori ruolo, a Montecitorio, per entrare al servizio del governo Di Rudinì. Ambedue vedevano scontrarsi i sommi principi – appresi nel faticoso cursus accademico – con la realtà di una politica amorale. La reazione fu però diversa: chi conosceva il mondo (Spaventa), invocava la giustizia nell’amministrazione in Lo Stato e le ferrovie. Scritti e discorsi sulle ferrovie come pubblico servizio (1876); chi conosceva solo il Palazzo (Mosca), vergava le amare pagine di Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare (1884).

La negazione della democrazia come possibilità concreta, in funzionari parlamentari come Mosca, deriva dall’estrema vicinanza al sole, che abbaglia chi lo osserva. Ne deriva una curiosa abulìa tecnocratica, in cui si mette la profonda competenza giuridica al servizio di una disinvolta tecnica di rastrellamento del consenso tra le elites: non più quelle del Collare dell’Annunziata della dinastia sabauda, ma certo quelle da cui dipende la critica favorevole sul TG di prima serata.

Mosca ne fece il motivo per una teoretica della scienza politica, ma anche in questo lo spirito dei tempi è in calando: ora basta affilare la lama della ghigliottina con l’articolo “premissivo”, e credere che, attraverso la guerra di carta degli emendamenti, passi la strada per modernizzazione del nostro Paese. Cuor contento, il ciel l’aiuta.

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