L’informazione ha cambiato la storia del mondo. L’informazione è ingrediente della conoscenza. La conoscenza è tendente alla verità. E’ teleologica. Dunque, l’informazione come garanzia di verità ha cambiato la storia del mondo. Allora: è la verità che può cambiare la storia? Vediamo.

I primi giornali, tra la seconda metà del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, consentirono alle idee di piccoli gruppi e movimenti politici e culturali di circolare molto più rapidamente di quanto fosse al tempo possibile e soprattutto le consegnarono alla conoscenza di larghi strati della popolazione – che non avrebbero altrimenti avuto accesso ai salotti e ai cenacoli – determinando un’esplosione a catena di moti rivoluzionari che, seguendo le dinamiche di villaggio globale ante litteram, tendevano tutti al medesimo obiettivo: maggiore partecipazione alle scelte di governo, codificazione di quelli che oggi chiameremmo diritti civili, sistematizzazione dei rapporti tra amministrazione e cittadino così da sottrarli all’eccessiva discrezionalità del principe, per finire via via nel tempo con l’oggettività nell’istruzione e nell’economia del lavoro. Tutto ciò ha, di fatto, condotto poco alla volta al riconoscimento della collettività come soggetto complesso titolare di interessi legittimi derivanti dall’unificazione di diritti soggettivi.

In sostanza, l’informazione ha condotto per mano, tra i popoli e nei luoghi, la democrazia.

E il radicamento della democrazia è direttamente proporzionale ai connotati democratici dell’informazione in nome dei quali gli informati possono diventare informatori che, a loro volta, hanno esigenza di essere informati (i primi giornali erano scritti e pubblicati non da editori-principi ma dai “movimenti”, come li chiameremmo oggi). In questo modello circolare biunivoco tutti possono sapere tutto (potenzialmente). Si potrebbe pertanto ritenere che non ci sia più alcuno spazio per la menzogna.

Se ci fermassimo qui, potremmo concludere che non solo l’informazione ha cambiato la storia del mondo, ma ha anche sconfitto la menzogna.

Invece i destinatari finali dell’informazione, siano essi informatori informati che informati informatori, non possono esercitare alcuna verifica reale sulla natura delle informazioni. L’unica possibilità è affidarsi ai propri giudizi (pregiudizi) sull’attendibilità apparente (apparentemente intrinseca) del mezzo. Di talché l’informazione, il fine, coincide col mezzo.

E’ perciò che mai come nell’informazione, della menzogna non si può che tessere l’elogio.

Più ancora nel caso dell’informazione democratica: quando il mezzo è controllato dagli informatori per definizione (si possono anche chiamare dittatori: i principi decisero poi di controllare la stampa proprio in conseguenza dei risultati politici che aveva ottenuto nei decenni precedenti e lo fecero direttamente o attraverso “notabili” a loro fedeli che divennero editori), senza alcuno spazio per quel modello circolare di cui si diceva, induce diffidenza, invita alla criticità (e al criticismo) e sebbene ci sia il rischio che la verità venga rifiutata perché creduta menzogna e viceversa, in ogni caso il sistema dei filtri critici costituisce un deterrente non tanto alla predisposizione della menzogna da parte dell’informatore (che è sempre libero di farlo), quanto piuttosto alla possibilità che essa, la menzogna, trovi facile e piena accettazione.

Diversamente, nell’informazione democratica la menzogna non esiste per definizione: l’esistente, per esser tale, deve essere riconoscibile, o quantomeno conoscibile. O ancora, cartesianamente, pensabile. L’esistenza, anche solo astratta, postula almeno la pensabilità. La menzogna, finché il suo stesso creatore, il mezzo d’informazione (democratico quindi controllato perché controllabile e pertanto percepito come impossibilitato a mentire sistematicamente e dunque veritiero per definizione secondo un procedimento di semplificazione della percezione), non la indica, non è tale.

Ci si trova allora in una realtà in cui chi mente finché non ammette di mentire dice il vero. E dunque la menzogna diventa anch’essa fine accettabile e accettato, e l’informazione nata per formare la conoscenza liberandola dalle menzogne, può mescolare queste tra i propri obiettivi, realizzando una rara e potente eterogenesi dei fini. E non conta che almeno per un soggetto, direttamente interessato alla menzogna, essa possa essere smascherata e denunciata: nella quasi totalità dei casi la denuncia riguarda una menzogna che se non fosse tale sarebbe verità vergognosa. Quante volte chi dovrebbe vergognarsi ammette pubblicamente di doverlo fare? Dunque chi smentisce, nell’intento di ristabilire una verità, rappresentando una realtà che lo rende migliore, rispetto a quella disegnata dalla menzogna, viene guardato con diffidenza. La verità non è credibile per il solo fatto che favorisce qualcuno: colui che la sostiene. Così la “smentita” si trasforma da antidoto in veleno e talvolta rafforza ciò che vorrebbe cambiare.

A questo punto, dobbiamo rivedere l’affermazione introduttiva, o meglio, correggerne il contenuto. Se l’informazione è – o almeno può essere, agevolmente – menzogna, è la menzogna che ha cambiato la storia del mondo.

Basta, tutto ciò, a dimostrare che la menzogna è assai più forte (o assai meno labile, che non è lo stesso) della verità? Probabilmente no: molti, tra i lettori, penseranno che si tratti di una provocazione. Invece no. Provate a immaginare che sia tutto vero, e dunque tutto falso. Ci sarebbe ben poco da divertirsi. In verità. Ma quale verità?

Pensiamo alla sostanziale diversità di messaggio che può provenire da titoli giornalistici che adoperano linguaggi diversi pur nell’identità linguistica (“Governo in difficoltà: la maggioranza cerca nuova stabilità”; “Le difficoltà del Governo superabili con una nuova stabilità della maggioranza”): sulla possibilità soggettiva di rintracciare la difformità incidono non poco la formazione mentale a sua volta discendente dalla pregressa formazione linguistica,  e la capacità di linguaggio come manifestazione della conoscenza e – insieme – come strumento cognitivo.

Chi abbia cognizione dei metodi di comunicazione televisivi o radiofonici conosce il collaudato sistema del “servizio panino”, efficacissimo per ingannare il linguaggio nella sua primaria funzione di strumento cognitivo e, correlativamente e successivamente, in quella di manifestazione della conoscenza (soggettiva, presunta). Tralasciando il fraudolento ricorso – esclusivamente televisivo – ad immagini di accompagnamento al testo in contrapposizione con questo, allo scopo di bilanciarne lo “svantaggio” che potrebbe derivarne ad una parte (la parte forte, o che comunque si è scelta a protezione, soggetto della notizia), il servizio panino propriamente detto è la notizia sfavorevole ad A strutturata in due-tre minuti, senza immagini significative, preceduta e seguita da notizie favorevoli ad A strutturate in servizi di tre-quattro minuti accompagnati da immagini di grande effetto ed efficacia.

In questi casi, dov’è la menzogna? Tecnicamente, anzi, è solo la verità. Ma mentre la verità può essere strutturata, e presentata, in modo da diventar menzogna, quest’ultima non corre mai il rischio di “essere” verità, ma ha il solo merito di apparire tale: in tal senso la menzogna è certo più potente della verità.

Analogo procedimento, nelle motivazioni della sentenza di assoluzione (meglio, vorremmo sperare, nell’arringa difensiva) che pur di pervenire all’obiettivo prefissato, svilisce le argomentazioni sfavorevoli (l’eventuale omissione costituirebbe insuperabile punto debole)  in un linguaggio che parcellizza quelle concatenazioni logiche a favore di altre che invece, ad un’analisi oseremmo dire sintagmatica, risulterebbero perdenti.

Se, allora, la menzogna può legittimamente atteggiarsi a verità, non può che esser vero (falso?) anche il contrario.

Non crediate che si tratti di un semplice (banale) divertissement intellettuale.

Javier Marìas, il maggiore scrittore spagnolo contemporaneo (Madrid, 20 settembre 1951) tradotto in tutto il mondo, non esita a definire, questa nostra, “l’età della menzogna”. Raccontando della realtà che ispira il romanzo, così dice: “oggi, disgraziatamente, non c’è neppure bisogno di situazioni estreme. Anche all’infuori di esse, gente come Bush, Aznar, Blair, e Berlusconi mentono senza sosta, vivono, sono installati nella menzogna e la cosa peggiore è che tanta gente lo trovi normale e lo tolleri”.

In questo tempo, più che in ogni altro (si sarebbe portati a credere) la menzogna trova il suo miglior sostegno. Ma è poi vero che ciò accade in questo tempo più che in ogni altro? Soltanto in parte.

“Chi sia stato colui che per primo, senza essere andato a caccia, raccontò agli esterrefatti cavernicoli come aveva ucciso il mammut non posso dirlo – osserva Oscar Wilde – tuttavia, qualunque fosse il suo nome e la sua razza, egli certamente fu il fondatore delle relazioni sociali”. Le riflessioni di Wilde ci dimostrano – ove ve ne fosse bisogno – che sbaglia chi crede di trovare nell’oggi un’età della menzogna più fiorente di ieri. Oscar Wilde ci insegna che la menzogna è il fondamento della società civile. E non solo. Probabilmente quella menzogna circa la cattura del mammut fruttò al cavernicolo l’elezione a presidente dei cacciatori cavernicoli (non avrebbe potuto, infatti, essere eletto promettendo l’abolizione dell’Ici in quanto nonostante esistessero gli immobili – più immobile di una caverna… – non esistevano però i comuni). Dunque, un valore sul quale è stata costruita l’evoluzione dell’uomo e in genere le pubbliche relazioni (Oscar  Wilde, Decadenza della menzogna in Opere, ed. Mondadori 1997). A questo proposito, ad esempio – sempre secondo Wilde – la menzogna dà sapore a un pranzo altrimenti destinato ad essere “insipido come una conferenza alla Royal Society”.

Tuttavia una differenza tra oggi e ieri esiste: è la sistematizzazione della menzogna attraverso l’industria dell’informazione che garantisce concretezza al tema dominante eduardiano – pirandelliano – delle bugie con le gambe lunghe (in La Cantata dei Giorni dispari, tre atti, rappresentata per la prima volta a Roma nel 1948). E proprio con Pirandello il nodo verità-menzogna diventa centrale per la drammaturgia del Novecento. Nella trilogia del teatro nel teatro lo scrittore siciliano risolve il problema abbattendo la quarta parete: la barriera tra pubblico e palcoscenico. Gli attori entrano dalla platea e l’argomento della pièce è appunto quello della rappresentazione: gli attori che devono raccontare una storia, un regista che deve fare il suo mestiere… al punto che tutto si fonde, realtà con rappresentazione. Verità con menzogna. Da allora in tutto l’occidente si è dovuto fare i conti con questa frattura. O con questa fusione.

Tornando all’informazione – vero crogiuolo moderno della menzogna in particolare quando alle parole, per informare, occorre associare le immagini (e dunque l’informazione televisiva) – le cronache, da qualche decennio, liberate da ogni timore reverenziale in nome della capacità di catturare l’attenzione, sono improntate all’aureo motto: non permettere alla verità di rovinare una buona notizia. Che la verità sia spesso stucchevole, e difficilmente rappresentabile (tanto che in un qualunque procedimento giudiziario il testimone falso è sempre quello più preciso e pertanto tecnicamente attendibile), ne è consapevole già cinquecento anni fa il sorrentino Torquato Tasso.  “Magnanima menzogna, or quand’è il vero / sì bello che si possa a te preporre?” si chiede nella Gerusalemme Liberata (cap.22, 3-4): la citazione si trova in un piccolo libro pubblicato da Sellerio nel 1992, Elogio della menzogna, che raccoglie quattro scritti di autori diversi, tre dei quali seicenteschi ed uno cinquecentesco; in particolare il titolo fa riferimento all’Apologia della menzogna di Giuseppe Battista, illuminante e dotta dissertazione sull’opportunità e logicità del ben mentire: il sottile paradosso dell’assunto di base trova del resto antenati illustri nei latini, dove già un grammatico, Nigidio Figulo, introduce la distinzione fra mentiri e mendacium dicere, attribuendo alla prima delle due formule un significato sostanzialmente negativo perché volto con intenzione al danno altrui, ed alla seconda, all’opposto, un valore di innocuità, dando origine in tal modo a tutta una nutrita serie di scritti orientati a dimostrare, o a contrastare,  la validità di questa distinzione.

Richiamando la tecnica dell’informazione “bilanciata” (è tra virgolette perché vale come eufemismo) di cui dicevamo a proposito delle “difficoltà del Governo”, sono molti secoli che si teorizza la legittimità di questo tipo di menzogna, ragionando sulla intenzionalità degli obiettivi: “Perciochè a le volte è onesta anche la bugia, quando giovando a chi la dice, non nuoce a chi l’ascolta”  ribadisce Torquato Accetto in Della dissimulazione onesta,  (ed. Marco Valerio 2005) trattatello pubblicato nel 1641 che destò la curiosità finanche di Benedetto Croce.

La sublimazione di questa permanente vocazione alla menzogna, sebbene antica, trionfa ancora una volta oggi più di ieri grazie – di nuovo – all’evoluzione dell’industria editoriale: cosa sono i narratori se non menzogneri per definizione? E quando, più di oggi, il profluvio di libri rende alla portata di tutti quest’arte? Già Mark Twain, a proposito dell’Italia, osserva che “metà degli italiani scrive e l’altra metà non legge”. Si può quindi agevolmente dedurre che se la menzogna è la virtù del narratore, e se tra gli italiani sono in tanti a narrare, allora l’Italia è patria della menzogna più di altre.

Acuto come Ulisse oppure candido come Pinocchio, colui che mente è simile al narratore: così per esempio ser Cepparello nella prima novella della prima giornata del Decameron di Giovanni Boccaccio, dove menzogna e vita malvagia si coniugano indissolubilmente: notaio, Cepparello pronunzia con sommo diletto falsa testimonianza e si presta con analoga disponibilità ad essere spergiuro, omicida, bestemmiatore, baro ed altre piacevolezze. Nel momento della finta confessione finale per la quale verrà venerato come santo, nella figura del protagonista, re dei bugiardi, si duplica il ruolo di affabulatore-scrittore che crea menzogne per mestiere. E’ vero, Boccaccio qui sembra far trionfare Cepparello e la sua menzogna ordita ai danni nientemeno che della divinità; ma per i fedeli creduli, che di lui e della sua santità fasulla evidentemente si fidano, i miracoli avvengono realmente grazie all’integrità della loro fede in Dio, indipendentemente dalla fonte (Cepparello, il bugiardo santificato). Pare dunque che la bugia sia estremamente redditizia: e chi mente ha sempre un tornaconto notevole. Anzi, da Odisseo in poi i bugiardi sono i vincenti.

A riprova dell’affidabilità della menzogna, fin dal Cinquecento Erasmo da Rotterdam (era falso anche il nome, quello vero era Geer Gerrit) nel suo Elogio della pazzia del 1511, (ed. Einaudi 1964)  esprime senza mezzi termini il concetto  per il quale solo ai folli è concesso dire la verità. La convinzione viene ripresa, circa cento anni più tardi, da Shakespeare dove il giullare (il fool = pazzo) eredita direttamente dalla tragedia classica il ruolo del coro, il quale commenta o racconta gli eventi nella loro interezza e veridicità: un privilegio, quello di fare a meno della menzogna, riconosciuto al coro perché extraneus alla rappresentazione e dunque esistente solo perché ad essa funzionale. Cioè: la verità esiste in quanto funzione della menzogna.

Emblematici in questo senso sono il lutto e la malinconia di Amleto, ”cose che sembrano, perché si possono recitare”: menzogna nella menzogna, teatro nel teatro, la recita messa in scena dal principe di Danimarca, che crea disagio per ciò che sottintende ma non dà a vedere in maniera diretta, gli è consentita proprio per la sua condizione di folle, grazie alla quale può permettersi di dire verità. Attraverso la menzogna.

Senza la menzogna la filosofia non avrebbe potuto costruire i suoi paradossi. Nel quarto secolo avanti Cristo Eubulide di Mileto, della scuola Megarica, consegna all’umanità una delle più efficaci dimostrazioni della prevalenza della menzogna: “Un granello di sabbia non è un mucchio, due granelli non sono un mucchio, tre granelli nemmeno, e neppure quattro e così via. Possiamo dunque concludere che aggiungendo granelli di sabbia a qualcosa che non è un mucchio non si ottiene un mucchio. Eppure i mucchi di sabbia esistono”.

Si potrebbe ritenere falsa la prima affermazione, ma è un dato di comune esperienza che aggiungendo granelli non si ottengono mucchi.

Tuttavia anche considerare falsa la seconda affermazione si scontra con un dato di comune esperienza: i mucchi di sabbia esistono.

Il problema resta tale se si tenta di risolverlo con la chiave della verità: sotto questa lente ci si ritrova con due elementi di comune esperienza – e come tali considerati veri, proprio come l’informazione controllata, per chiudere il cerchio – in contraddizione. Ma la verità non può essere in contraddizione con un’altra.

D’altronde anche Platone conclude che per quanto l’uomo si sforzi il raggiungimento della verità è impossibile, perché confinata nel mondo iperuranio e dunque assolutamente in conoscibile.

Non resta che abbandonare la strada della verità e percorrere quella della menzogna. Che tutti i contrasti compone.

Anche uscendo dai paradossi la filosofia non può negare la prevalenza della menzogna: Cartesio lavora alla ricerca di un metodo che dia la possibilità all’uomo di distinguere il vero dal falso, non soltanto per un fine strettamente speculativo, ma anche in vista di un’applicazione pratica nella vita. Per scoprire tale metodo, il filosofo razionalista come è noto adotta un procedimento di critica totale della conoscenza, il cosiddetto dubbio metodico, consistente nel mettere in dubbio ogni affermazione, ritenendola almeno inizialmente falsa, nel tentativo di scoprire dei principi ultimi o delle massime che risultino invece indubitabili e su cui basare poi tutta la conoscenza. Cartesio sostiene che nemmeno le scienze matematiche, apparentemente certe, possono sottrarsi a tale scetticismo metodologico: non avendo una conoscenza precisa e sicura della nostra origine e del mondo che ci circonda, si può ipotizzare l’esistenza di un “genio maligno” che continuamente ci inganni su tutto.

Si giunge così al “dubbio iperbolico” e alla consapevolezza, aggiungiamo noi, che dal falso, dalla menzogna, non ci si può giammai liberare trattandosi di una dimensione che, al più, contiene il vero.

E’ perciò che la menzogna ha sempre vantato estimatori illustri in ogni tempo. Nel Novecento Albert Camus non ha dubbi: “la verità come la luce acceca. La menzogna, invece, è un bel crepuscolo, che mette in valore tutti gli oggetti”. E così anche un aforisma di Robert Musil può illuminare, sebbene indirettamente, sulla centralità della menzogna: “non è vero che l’uomo insegue la verità – osserva il drammaturgo – è la verità che insegue l’uomo”. Ma coincidendo, così spesso, fin dalla notte dei tempi, l’uomo con la menzogna, se ne deve dedurre che la verità insegue la menzogna. Dunque la menzogna è sempre un passo più avanti della verità.

E ciò che avete sin qui letto è vero o falso? La verità (la ricerca della verità) crea dubbi: ricordate Cartesio? La menzogna offre certezze.

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