Il decreto sul salvataggio dell’Ilva di Taranto evoca qualcosa di già visto, ma qualcosa che sfugge agli schematismi dell’ analisi politica ed economica. Qualcosa che, dopotutto, può essere attinta solo dal sentimento. L’Ilva è una grande industria siderurgica, con una storia risalente e significativa nell’esperienza industriale italiana. La famiglia Riva ha rilevato quello che restava della Italsider, a sua volta erede di una vecchia società anonima nata ai primi del Novecento.

La storia del siderurgico rappresenta bene cosa è stato il sogno industriale degli anni Sessanta. Riavvolgendo la pellicola di un film in bianco e nero scorrono gli anni in cui l’Italia, uscita con le ossa rotte dalla guerra e rianimata dal Piano Marshall, guardava alla modernità. Una modernità identificata nella produzione massiva, simbolizzata nel luogo della produzione, la grande fabbrica, tra vecchi aneliti futuristi e nuove emulazioni socialiste.
Quando il siderurgico venne costruito, Taranto aveva già fatto un’esperienza di industrializzazione, ricevendo nel suo grembo l’Arsenale militare e volgendosi ad un destino di grande produzione, gravido di frutti amari. Il bombardamento del porto militare nel novembre del 1940 evocava la hýbris, e le conseguenze nefaste preannunziate nell’antichità dalle rappresaglie di Quinto Fabio Massimo.

 

Il tumore negli anni Sessanta
Il siderurgico venne accolto anche come un nuovo atto di superbia. I tarantini hanno continuato, ancora a distanza di molti secoli dopo la repressione del cunctator, a vivere lo sdoppiamento tra una realtà di natura, appagata e ridente, e una dimensione di modernismo artificioso e avventuristico. Da una parte la città vecchia, la grande luminosità dei tramonti e i riti della pesca, dall’altro l’automobile fiammante, la seconda casa a Gandoli e il posto fisso in fabbrica o al Comune. Al di sopra del popolo a volte ignaro e a volte ignavo, impazzavano le follie del grande manovratore, una classe politica e amministrativa scaltra, avida di guadagni e legittimata da soverchie bardature ideologiche: il controllo dell’economia (vedi i piani pluriennali), l’assistenzialismo strutturale (vedi la Cassa del Mezzogiorno), la sacralità del controllo sindacale. Negli anni Sessanta, il quartiere Tamburi, la periferia a ridosso dello stabilimento industriale, era già ricoperto di polvere rossa, gli operai erano già decimati dal tumore; ma faceva comodo far finta di niente, continuare a succhiare la generosa mammella dell’Italsider.

La politica dei rami secchi
Quando l’esperienza delle partecipazioni statali vide la fine, accelerata dalla crisi del settore (anni Ottanta), gli impianti furono rilevati dal gruppo Riva (anno 1995).
Nell’interludio tra la morte della vecchia Italsider e la nascita della nuova Ilva, i rami secchi furono lasciati ai soggetti in via di estinzione (il plesso Finsider-Italsider); alla nuova Ilva passarono le strutture produttive, quello che ancora funzionava. Un copione rivisto altre volte.
Cosa sia successo da allora nel compendio industriale, non è molto chiaro, ma a giudicare dai dati rilevati nelle perizie disposte dalla magistratura tarantina emerge che non si sarebbe speso abbastanza per la sicurezza. Nonostante i ricavi della produzione siano rimasti altissimi. La hýbris dell’assistenzialismo clientelare, sfacciato ed arrogante, prima, e poi gli anni difficili della precarietà, sotto il taglione del contratto a termine e con lo spauracchio della fine dell’appalto continuativo. Il tam tam delle liste di aspiranti all’impiego sussurrava ossessionata le regole ferree di un mondo a parte. Negli anni Novanta scoppia il caso della famigerata “palazzina l.a.f.”, il locale del laminatoio a freddo in cui decine di dipendenti venivano tenuti inattivi aggirando l’obbligo di farli lavorare, quasi un moderno lager

La cappa rossa e il mare nascosto
Attorno al siderurgico è continuata a crescere una comunità cangiante. Centinaia di uomini e donne provenienti da altre regioni hanno affollato la città. Nel Mar Piccolo sono lentamente smorte le colture di cozze (le cozze pelose, compagne abituali di pasta e patate), sul Mar Grande l’urbanizzazione forzosa ha prodotto malessere sociale e problemi di ordine pubblico. Negli anni Ottanta è esplosa la potenza di una feroce criminalità organizzata, con decine e decine di omicidi e taglieggiamenti.
Ma è l’inquinamento ambientale a crescere a dismisura, prima nascosto sotto il tappeto, poi sempre più palese, ma sostanzialmente accettato. Il puzzo di gas per le strade è parte integrante del contesto urbano da decenni, così come la cappa rossa che nasconde la città alla vista di Martina Franca; il tarantino medio, però, ha continuato a far finta di niente. Nemmeno l’impennata del numero di tumori, sempre più eclatante, è bastata a generare una vera e propria rivolta civile. Proteste ce ne sono state, è ovvio, vista l’entità del fenomeno, ma le barricate no, non le ha fatte nessuno. C’è un bel libro di uno scrittore tarantino, Alessandro Leogrande (Un mare nascosto), che rende l’idea dell’inedia culturale, giovanile e non, che ha anestetizzato la città e portato i tarantini a vivere una situazione alienante.

In nome della “sicurezza sociale”
Allargato l’obiettivo va visto cosa c’era (e cosa c’è) dietro al disastro di Taranto. Senz’altro c’è la deviazione da un grande ideale di progresso, promosso nel piano di sviluppo industriale concepito da Francesco Saverio Nitti agli inizi del secolo, legata all’arretramento industriale della giovane nazione. Destino cui non fu estranea la concorrenza di altri Paesi industrializzati, cosa che dovrebbe far riflettere ancora oggi (all’estero il disastro dell’Ilva non sarebbe visto necessariamente male).
Poi vi fu il depotenziamento della capacità imprenditoriale mediante l’incastonamento dell’Ilva nell’I.R.I., per complesse ragioni storiche, e la dissociazione tra l’esperienza industriale e la responsabilità del mercato, con un ritardo culturale ulteriormente accumulatosi nel sistema delle partecipazioni industriali. Un sistema, quest’ultimo, che ha vissuto tutte le contraddizioni e le negatività di un’economia mista. Tra le quali basta richiamare la presenza pervasiva, tra le classi dirigenti, di personale politico, spesso carente di adeguate competenze e soprattutto privo di effettive responsabilità.
All’importanza del settore industriale e della sua valenza strategica, di cui oggi il Governo si riempie la bocca per tacitare un incomprimibile bisogno di “sicurezza sociale”, non è corrisposto nessun disegno politico ed economico, che non fosse la perpetuazione dell’esistente, un groviglio di interessi e clientele da cui non può chiamarsi fuori nessuno: né sindacati né partiti, né società civile né pubblici poteri.

Il sequestro tardivo
Se si stesse parlando di una storia durata solo un giorno, si potrebbe spiegare perché solo ora sia stato squarciato il velo. Ma la situazione è durata troppo tempo. Il sequestro preventivo degli impianti industriali è un caso di scuola, molto spesso menzionato nei libri di procedura penale, molto meno utilizzato nella pratica. Non è un istituto processuale di nuova concezione, esiste da decenni. Da decenni era possibile fare una passeggiata sul mar Piccolo e vedere i fumi immensi del siderurgico, verificare ad occhio nudo l’ampiezza dell’immissione, controllare se quelle spaventose effusioni notturne coprivano davvero, come si mormorava nel popolo, lo scarico dei veleni non tollerato di giorno. Da decenni le strade della città puzzano di gas, da decenni gli stipiti sono erosi dalla polvere di ferro. Da decenni si susseguono le morìe improvvise di uccelli, le strade invase da decine di passerotti stecchiti. Da decenni si susseguono e crescono i decessi per asbestosi, tra i dipendenti dell’Ilva e nella popolazione civile. Perché un sequestro preventivo vero, cioè totale e paralizzante, è giunto solo nell’anno di grazia 2012? Forse prima il tasso di inquinamento stava nel rispetto di qualche regolamento comunitario, o nelle ragioni tecniche dei codici? Nelle diversità delle fattispecie o nel silenzio delle notitiae criminis? Certo, fenomeni anche gravi di inquinamento non necessariamente chiamano in causa gli altoforni, né sono mancate precedenti indagini. Tuttavia i dati che emergono dalle perizie, e le notizie storiche che appartengono al notorio, pongono la domanda del perché il bubbone sia scoppiato solo adesso. L’enormità del fenomeno induce queste domande. 

Le capre, i cavoli e il governo Monti
Ora il governo Monti ha deciso di varare un decreto che, di fatto e/o di diritto, pone nel nulla gli effetti del sequestro preventivo. Provvedimento preceduto da un campionario di ipocrisie: dire “viva la vita” e insieme “viva il lavoro”, nella situazione attuale di Taranto, è una contraddizione. Certo la filosofia del decreto è quella di rimettere a norma l’azienda, salvando come si dice capra e cavoli. Dietro l’angolo però c’è un conflitto di poteri, perché l’inefficacia del sequestro preventivo per decreto potrebbe porre problemi di incostituzionalità, equivalendo in sostanza ad un’espropriazione del potere giudiziario. Un modus procedendi non certo inusitato, come ricordano bene alla Procura di Napoli memori dell’interventismo del governo di centrodestra nel caso degli inceneritori. Nella vicenda tarantina, però, c’è una aggravante che rende il caso assai più spinoso, e cioè che il sequestro c’è già stato, per cui l’ipotesi di una invasione di campo da parte del Governo si fa più verosimile (cose che in altri tempi avrebbero già prodotto una mezza sollevazione popolare, ma questa è un’altra storia).


Il Diritto e gli interessi in gioco: destini incrociati
Qui si incrociano dunque due destini. Il primo è quello del nostro futuro industriale. Magari potrebbe essere l’occasione per capire se l’industria sia una vocazione genuina e un settore veramente utile per il Paese. Per dire, con sovvenzioni dell’unione europea si potrebbero abbattere i chilometri di cemento che imbruttiscono la litoranea tra Taranto e Gallipoli, tirando su eleganti centri benessere per vacanze, come direbbe la tradizione (i senatori di Roma antica svernavano volentieri nella molle Tarentum). Il secondo destino, ancor più a rischio, è quello dei rapporti tra politica e magistratura, tanto per cambiare. In questo caso, la posizione dei magistrati non è minimamente sospettabile di una volontà politica, o almeno non sul piano del discorso pubblico. L’esigenza cautelare c’è o non c’è. Abolirla per decreto è un nonsense, giuridicamente s’intende, sinché non venga incisa la stessa norma istitutiva della misura cautelare. Ma non v’è dubbio che molto si giocherà sui modi, potrebbe dirsi quasi sullo stile dell’azione penale. Le insidie tecniche sono moltissime, una di queste ha fatto già capolino con il sequestro di prodotti finiti. Ci si potrebbe chiedere, per esempio, come entra il prodotto finito nella funzione strettamente preventiva del sequestro, in relazione alle conseguenze proprie del reato perseguito. Ci sarebbe da discutere, e il rischio è quello di una contrapposizione, sinora anestetizzata dal savoir-faire dei tecnici, tra gli agenti degli interessi rodatissimi coinvolti (impresa sindacato politici e amministratori) e i difensori del Diritto.

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