Si  celebra il 25 novembre  la giornata “contro la violenza sulle donne”.  E’ una  protesta  globale, che vede coinvolte associazioni, singoli individui, istituzioni.

Variante estrema della violenza sulle donne è il “femminicidio” parola attorno alla quale si sono spese migliaia di interpretazioni. Di sicuro si tratta di una tipologia di reato con delle caratteristiche  comuni di sopraffazione dell’uomo sulla donna. Crimine consumato nell’ambito di rapporti affettivi, si tratta di  una  degenerazione tribale e contemporanea di  primitivi rapporti di forza che attualizzano lo schema patriarcale. Per questa ragione si è più volte detto che per la prevenzione  il dato culturale è fondamentale.

Di cosa è fatta una cultura? In  larga parte di abitudini, luoghi comuni, simbolizzazione,  orientamento politico, elaborazione di tradizioni familiari e collettive oltre che di ricezione dei contenuti di un’industria culturale che ricalca gli schemi più antiquati. Quello che importa qui è in che modo però la cultura “contro” abbia agito. Istituzioni e media in particolare. O i due insieme.
Questi ultimi generalmente, quando si adoperano per la “questione culturale” fanno i danni peggiori  con l’esaltazione della “donna vittima”. Una delle scelte iconografiche di maggiore  ripetitività a corredo di articoli su casi di violenza è  proprio la fotografia di una donna rannicchiata che ha appena subito una violenza. E poi approfondimenti, talk e programmi ad hoc appunto sulle vittime. Finisce così  col diventare una norma:  “una donna è una vittima” per definizione.  A questa si aggiunge l’eredità familiare madre figlia: cosa deve fare una donna per “tenersi” un uomo? In cosa si deve sentire sbagliata se  non riesce? In  quali campi deve pietire attenzioni?

In intelligente controtendenza rispetto a questa consuetudine sono due campagne istituzionali: una del Ministero delle Pari Opportunità che raffigura donne abbracciate a un uomo con slogan che invitano le donne a riconoscere la violenza e ad andarsene in tempo, e un’altra  promossa dal Comune di Roma  che ha riproposto una precedente campagna bolognese. La cartellonistica  prevede alcuni testimonial da  Gaetano Prandini a Alessandro Gassman che appaiono con lo slogan “Noi no” per dire che scelgono di non essere violenti. Accanto al ritratto, si elencano almeno tre lemmi con relativi significati delle varie declinazioni della violenza: dall’umiliazione alla sopraffazione. Spostare la luce  sugli autori  del crimine sarebbe dunque una campagna di responsabilizzazione e non di delega alla vittima. Ma:  “secondo me si deve  piuttosto  partire dalle donne, che devono imparare  a riconoscere un rapporto che non funziona e a sfilarsi prima che sia troppo tardi. Preferisco molto di più quella proposta dalle Pari Opportunità. Invece quella che raffigura la ‘donna vittima’ è fuorviante e inutile. Una donna tende a evitarla e rimuoverla. In particolare, se sta subendo una violenza in quel momento, evita di vedere il suo dolore” dice la criminologa psicoterapeuta Luana De Vita

Come si può allora  instaurare una cultura contro il femminicidio?
“Innanzitutto non sono d’accordo col fatto che creare una pena ad hoc lo faccia diminuire. Storicamente non è mai avvenuto. In America non sono diminuiti affatto gli omicidi con la pena di morte. E inoltre va smentito che sia in crescita. Sono diminuiti gli omicidi in genere. Semmai quelli che coinvolgono le donne e con quelle modalità sono rimasti invariati a distanza di trent’anni, malgrado i cambiamenti sociali e culturali. Gli autori sono mariti, amanti, fidanzati, e spasimanti. E’ un omicidio che ha a che fare con le relazioni affettive e va analizzato nella dinamica che si crea  tra vittima e aggressore e il tipo di relazione che si è costruita tra i due.
Inoltre non sempre la vittima  reale è anche vittima nella relazione. Mi ricordo ad esempio una ragazza che aveva accoltellato e ucciso il fidanzato, ma veniva da una storia di abusi, violenze e umiliazioni”.

Come si fa ad accorgersene per tempo?
“Dopo una prima fase di corteggiamento e innamoramento in cui tutto è idilliaco il partner inizia con le critiche al modo di essere, vestirsi, comportarsi. Progredisce con un lento  peggioramento. Tipico:  ‘potresti ridere di meno’‘guarda che ti sei messa’. ‘potevi comportarti un po’ meglio’ … In questa fase,  che la letteratura definisce ‘camminare sulle uova’ ,  le donne  cercano di mediare tra le richieste del partner e i loro comportamenti. Sono disorientate però perché non capiscono dove hanno sbagliato. Cercano solo di prevenire e evitare le mosse che possono suscitare l’irritazione.  Il presupposto è che l’uomo percepisca la donna come oggetto di possesso,  così, in questa visione del mondo cose  che non vanno bene ce ne saranno sempre. Dall’altra parte, il tentativo di assecondare intensifica le richieste. Poi si passa a una fase peggiore:  dopo il maltrattamento lui torna delizioso con  fiori e promesse. In genere le scuse sono sempre legate al  “ti amo e non posso fare a meno di te”. A quel punto il problema che si crea nella coppia  isola la donna che arriva a pensare che è meglio evitare occasioni di uscita per paura che diventino motivo di altre critiche. Dopo di che si è travolte dal meccanismo che si cerca di controllare. Ad esempio “non posso lasciarlo perché ho problemi economici”,  ma ormai si è in uno stato di stress e di disturbi emotivi che non ti aiutano più a distinguere”.

A questo punto sembra inserirsi il dato culturale e la sua incidenza nel comportamento femminile.
“Vorrei innanzitutto denunciare l’incredibile ignoranza in campo sessuale delle giovani  che vivono il sesso come si racconta su youporn.  Quando il rapporto è degenerato la donna compie una serie di sforzi per cercare di non fallire la storia d’amore. Alle donne è sempre stato detto che è colpa loro se si fallisce. Invece la battaglia è imparare a capire che se un uomo non le ama o non le apprezza  non fa per loro. E il  campanello d’allarme è quando si continua a fare  qualcosa contro l’idea che abbiamo di noi stesse. Poi si passa alla fase finale. Quella dell’uccisione. Il  mio consiglio allora è:  mai andare all’ultimo appuntamento. Mai. O soltanto in luoghi affollati”.

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