Hanno tentato di tutto per convincerci che una centrale atomica è peggiore di una flotta di superpetroliere da 500.000 tonnellate perennemente a rischio naufragio, hanno cercato di portare le prove scientifiche del fatto che il nucleo dell’atomo avrebbe potuto inquinare più del carbone. E alla fine ci sono anche riusciti, grazie alla corruzione e all’incompetenza di qualche ingegnere sovietico (Chernobyl, 1986) o giapponese (Fukushima, 2011).

Se credono in qualcosa, dollari a parte, devono aver pregato in tutti i luoghi sacri di ogni religione per rallentare la ricerca operativa sui reattori nucleari a fusione. Finora sono bastate le difficoltà tecniche, in futuro vedremo come si chiuderà la partita. Adesso di sicuro la notte non dormono bene. Pensano ai favolosi vecchi tempi quando facevano e disfacevano governi. Oppure decretavano guerre per procura (proxy wars, nel gergo attuale degli istituti di studi strategici) attribuendone ad altri la responsabilità.

Sono i signori dell’energia fossile e dunque del CO2 che accelera il riscaldamento globale del nostro pianeta. Ma ormai anche il global warming entra di forza nei loro incubi: inverni miti e termosifoni al minimo, se non altro per chi possiede una casa alle latitudini temperate, e se li può permettere. Attenzione, però: la promessa di Donald Trump –rendere gli USA indipendenti dalle importazioni di oil, gas e carbone– si sta realizzando. La nuova Amministrazione sta aiutando come meglio può la prodizione nazionale di energia, abbattendo vincoli ambientali e riducendo le imposte. Sicuramente un problema. La posta in gioco però è alta: disarmare una volta per tutte i padroni del petrolio, Iran e Venezuela soprattutto. E in pieno accordo con l’Arabia Saudita. In Italia non se ne parla, ma il progetto “Vision 2030” infatti renderà la struttura economica del Regno più moderna e flessibile. Gli accordi di Parigi per il rallentamento e l’inversione di tendenza del global warming sono nati morti. Il danno è irreversibile, e il crimine è stato consumato più di 30 anni fa. L’unico modo di intervenire seriamente è già applicato nella Repubblica Popolare Cinese: il controllo stretto della crescita demografica, e quindi del consumo complessivo di risorse.

Quella del petrolio è una vera e propria maledizione, come l’oro rubato agli Incas che mandò in rovina la Spagna di Filippo II. Sempre troppo, o troppo poco. Il greggio è troppo, è maledetto, e vogliono venderlo subito. Questa la situazione del mercato petrolifero, adesso. Dunque il prezzo cala. Qualcuno dice per fortuna, altri piangono lacrime di sangue. Troppo petrolio uguale prezzi bassi e pochissimi soldi sui mercati. Dunque pochi miliardi di dollari al giorno, i quali per giunta finiscono spesso nelle mani sbagliate. Armi a parte, nessuno compra la roba che costa davvero. Qualche grattacelo a Dubai, gli ultimi yacht formato super. I marmi intarsiati, i rubinetti e i lavandini d’oro massiccio, la neve artificiale sotto il sole dei tropici, sono soltanto costosi monumenti al tempo che fu.

C’era una volta l’OPEC, il grande club internazionale dei produttori, e c’è ancora. Però non conta più nulla. Provate a chiedere ai giovani in smart. Sicuramente neppure ne conoscono l’esistenza in vita, peraltro artificiale. Invece quelli che prendevano la patente di guida negli ultimi decenni del secolo passato già a 18 anni sapevano tutto dei 12 paesi leader mondiali nella produzione dell’oro nero. Nelle periodiche riunioni OPEC a Vienna, bastava un sopracciglio male incurvato di qualche ministro –saudita, venezuelano o iraniano che fosse– per far sparire la benzina dalle pompe, moltiplicare il prezzo di litri e galloni, mettere sull’orlo del baratro l’economia mondiale con la forza inquinante del ricatto petrolifero. Oggi gli incontri OPEC finiscono nelle pagine interne, e le TV si occupano di barconi, muri e migranti. Ma tutto è connesso, e non solo nel WEB, su scala planetaria.

Il crollo del prezzi pagati alla Nigeria per il suo petrolio  spinge all’arruolamento in Boko Haram oppure alla fuga in massa dal paese, senza più risorse per investimenti alternativi e per il risanamento ambientale. La crisi nigeriana produce un effetto a cascata sui paesi del Sahara e si trasforma nelle ondate di migranti sventurati che affollano le coste della Libia.Nella grande partita dei rapporti di forza, spesso letale, il prezzo del petrolio gioca e ha giocato un ruolo decisivo, che oggi va ridimensionandosi. Questo aggiustamento al ribasso diventerà un fattore di stabilità, intanto provoca il caos. Si torna al confronto, spesso armato, per il cuore e per le menti degli esseri umani (Sciiti contro Sunniti), e per il controllo di territori ritenuti di vitale importanza: coste e isole di mari e oceani (la Siria, il Mare Cinese Meridionale), i corridoi di comunicazione (Afghanistan), i ghiacci dell’artico, le zone di pesca, le ultime grandi foreste.

Nel 2005 il petrolio greggio costava circa 45 dollari al barile. Un barile di greggio equivale, è bene ricordarlo, a 159 litri. Successivamente il prezzo del greggio tornò a impennarsi, fino a toccare i 125 dollari del 2012.Oggi è di nuovo assestato intorno ai 45-50, e la previsione a un anno lo valuta sui 55 all’autunno 2017. In Occidente diminuiscono i consumi. Le piattaforme di estrazione tra Scozia e Norvegia si rivelano costose, ma non temevano i capricci del dittatore di turno. Compaiono comunque nuove risorse energetiche, il petrolio viene gradualmente sostituito dal metano, si affinano le tecnologie del vento e del solare, sono arrivati il fracking e gli scisti bituminosi, molto pericolosi ma poco costosi,mentre il gas russo viaggia verso ovest in territori che gli islamisti non possono controllare. E anche il governo israeliano dispone di un proprio megagiacimento di gas naturale scoperto sotto il mare di Haifa.

Ormai due degli Stati OPEC in pratica non esistono più (Irak e Libia), Nigeria e Venezuela sembrano in crisi irreversibile. La Russia, come già la scomparsa Unione Sovietica, non fa parte dell’OPEC però ne condiziona dall’esterno la politica con mezzi molto persuasivi, regolando la produzione in funzione delle proprie necessità di valuta. Gli ayatollah di Teheran nel 2001 tentarono con scarso successo di istituire un GECF (Gas Exporting Countries Forum) e negli ultimi dodici mesi hanno cercato di rientrare nel grande gioco grazie ai miliardi di dollari che incassano con la fine delle sanzioni. L’Amministrazione Obama voleva un giro di soldi iraniani per sostenere la ripresa economica in Europa, ha visto al contrario –segreto di Pulcinella– nuovi finanziamenti per le atomiche nordcoreane.

La buona notizia, per la politica internazionale e per il pianeta Terra, è che non si investe più nel petrolio. Di fatto, non conviene bucare il pianeta per cercare nuovi idrocarburi. Anche l’italico referendum sulle trivelle alla fine sarà superato, pensiamo in bene, dagli eventi. L’età del petrolio di fatto è finita. Non tornerà, basta guardare i listini di borsa. Le nostre grandi società del petrolio e delle perforazioni off-shore non falliranno, sono bene amministrate e sapranno riciclarsi. Intanto nel Golfo le teocrazie sunnite e sciite, se pure riusciranno ad evitare una guerra islamica fratricida e totale, fanno i conti con la fine dei soldi facili. I popoli che pagano le tasse esigono democrazia: no taxation without representation.

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