Si ritorna a scuola. Improvvisamente milioni di bambini e ragazzi non si alzano dal letto al mattino e trovano il sole ad aspettarli, la sua ironica e fertile presenza lassù, ma una scuola, un edificio prima di tutto organizzato in stanze quadrate con dei lunghi corridoi vuoti. Una scuola dove spesso il suono è una specie di eco ripetitivo, senza fascino o intensità.

Nelle stanze quadrate, infatti, spesso si grida, si spiega, si chiama, ma tutto senza prestare molta attenzione all’atmosfera, la sola invece, a mio parere, in grado di educare in profondità.
Quell’atmosfera che si crea soprattutto con i suoni e poi con la luce, con la posizione e la forme degli oggetti nello spazio, quindi con i corpi e la loro disponibilità a sentire, prima ancora di fare.

Dunque, comincia la scuola e l’atmosfera cambia: il mondo si restringe e i bambini (almeno quelli più piccoli) cominciano inevitabilmente ad “umanizzarsi”, perdendo la loro “animalità”, la loro intimità con l’invisibile, con la magia delle cose, con il mistero, con la natura. Intimità che l’estate aveva favorito in qualche modo. Si umanizzano nel senso che, chiusi o rinchiusi in una stanza, nella loro vita prende il sopravvento la presenza degli altri esseri, con cui, male o bene, dovranno provare a vivere. A meno che, come si usava un tempo, qualcuno di loro non finisca all’angolo in castigo, dove poter ancora immaginare “siepi e orizzonti” e trasformare “l’esclusione” in energia creativa. Dove poter amare la solitudine.

Se, dunque,  per i nostri bambini e ragazzi, questi sono i giorni di un cambiamento importante, che cosa avviene per noi adulti? Che si siano fatte le vacanze o meno, che le si sia fatte in un modo appagante e rigenerante o frustrante, anche per gli adulti è il momento di un “passaggio”.
Ce lo dice il nostro corpo che comincia a desiderare una coperta la notte o che si accorge del tramonto e magari resta ad osservarlo per qualche istante (cosa che ormai avviene raramente), ce lo dicono i nostri impegni che s’infittiscono e ce lo dice la nostra mente o sarebbe meglio dire il nostro inconscio che forse, più che dopo il capodanno o il nostro compleanno o altre date (le variabili sono comunque consentite), a fine estate sente che un altro pezzo di tempo è stato percorso, che il tempo è scivolato ancora, che siamo ancora qui a combattere, in una parola, vivere.
Così questo è il momento, per certi versi, più introspettivo dell’anno. Il momento in cui ci sentiamo più sospesi, come le foglie che tra poco cadranno inevitabilmente.

Nei momenti introspettivi la scrittura può apparire quasi una cosa naturale, al pari del mangiare quando si ha fame o del dormire quando si ha sonno. E la scrittura, che ci costringe sottilmente alla narrazione, dunque a tentare un ordine, quale esso sia, sarebbe bene oggi, forse, che più che esprimere sensazioni o desideri, pensieri o analisi, riuscisse a raccontare a noi e agli altri degli accadimenti, mettendoli quasi in fila, ordinandoli, appunto, come se in questo semplice procedimento ci potesse o dovesse essere qualcosa di importante, perfino di essenziale per la nostra sopravvivenza.

In questo paese con la cultura non si mangia, chi l’ha detto aveva ragione, ma non va trascurato il fatto che la cultura può rendere il cibo, o i soldi necessari per comprarlo, salutari. Altrimenti si mangia senza un vero piacere, senza la bellezza dell’atto.
Non voglio ora lanciarmi in uno spot per la cultura, (del resto, siamo sicuri di essere tutti d’accordo su cosa intendiamo per cultura?): c’è troppa pubblicità nell’aria e se ci mettiamo a pubblicizzare anche la vita (o la morte), se riduciamo anch’essa ad un prodotto, che ne sarà degli uomini che già stentano a credere, ad avere fiducia, a comprare? 
Penseranno, senza accorgersi di farlo, che qualcuno possa seriamente convincere qualcun’altro a fare qualcosa. Ma in realtà questo non è possibile: ognuno deve fare il suo percorso, ognuno deve sbattere il muso e comprendere da solo. Possiamo solo raccontarci delle cose, forse, sperando che essa servano a noi e agli altri. Il resto è… pubblicità.

Se ho parlato della scrittura e degli accadimenti è perché questo ha a che fare con questo mestiere che svolgo qui su questo scenario, con la mia responsabilità e il mio piacere, ma anche perché sento o vorrei provare a suggerire (evidentemente la pubblicità non può fare a meno di me) l’importanza di un metodo in questo nostro affanno contemporaneo.  
Il termine metodo, dal greco μέθοδος, méthodos (inseguire, andare dietro), è, si sa, l’insieme dei procedimenti messi in atto per ottenere uno scopo o determinati risultati. Esistono molti metodi ma questo insieme, questa organizzazione, presuppone che ci siano dei procedimenti, appunto, o degli atti veri e propri che nel momento in cui si verificano annientino lo scenario ideale, la programmazione delle azioni e sciolgano in se i soggetti che li compiono.
Non si può, infatti, non riconoscere che per agire o quando agiamo, noi dobbiamo sospendere l’intendimento e occuparci di… altro. Scioglierci nell’immediato e dunque nel caso.
Se gli atti, dunque, esistono come dei buchi neri che annientano l’io in un incontro, una fusione capace di trascenderlo, aldilà o proprio per la sua volontà, su cosa può poggiare un metodo, su quali “basi”?
E’ possibile, in altre parole, avere un metodo, quale esso sia, se si riconosce che la realtà e noi siamo indissolubilmente legati?
Il metodo non presuppone un’organizzazione che poi può risultare inutile, come la preparazione di un battaglione che, incontrando la guerra, viene annientato (o scombussolato) sul campo?

I fatti non esistono, diceva qualcuno. Eppure non è proprio la libertà di interpretarli a dimostrare che qualcosa sta ad aspettare la nostra volontà e le nostre capacità? Non è proprio, intendo, il senso della libertà  o dell’infinita possibilità che dimostra l’esistenza di una “fonte” originaria? Così come avviene per il contrario, ovvero per il fatto che la “fonte” dimostra l’esistenza della libertà?  
Che si tratti di una tempesta marina o del crollo di una casa, di un omicidio o di un discorso, la nostra interpretazione, necessaria quanto inutile, evidenzia che c’è un’entità, che c’è un trampolino da cui buttarsi, che, se solo fermassimo la rincorsa e la paura, ci accorgeremmo che i fatti, sotto, si muovono con noi, ci seguono anzi, ci stanno attaccati,  sono una nostra appendice, una nostra parte inscindibile, pur restando esterni.
Per orientarsi in questa follia, in questa realtà paradossale, in questo caos, abbiamo bisogno di un “ordine”, di un metodo. Forse più che di un linguaggio, come qualcuno potrebbe dire.

Questo metodo di cui parlo è quello di rispettare che l’intento fiorisce dall’esito e non tanto il contrario, che dunque ciò che possiamo solo fare è ascoltare, concentrarci nell’ascolto. Abbandonarci. Esiste, cioè, un pensiero che nasce dall’abbandono, che si struttura, che sorge dall’atto, dall’esperienza. Questo metodo, non è forse più sano per noi di quel continuo pensare o agire senza ascolto? Di quell’agire monco, finto, che risulta essere un non procedere? Un vomito e non un respiro?

Anche se mi piace (lo avrà capito chi mi legge da un po’) abbandonarmi alla “filosofia”, alla sua cura, alla sua capacità terapeutica, non voglio ora addentrarmi in questioni  troppo astratte o troppo “culturali”.  Forse ho scritto di questo per dire che scrivere è un atto importante perché implicitamente, segretamente, contiene un metodo d’ascolto. Non so.
O forse per riflettere sulla mancanza di un metodo del nostro procedere, che solo quando sembra non avere un metodo, quando sembra veramente esporsi al caso, all’immediato, invece ne mette a fuoco uno di metodo: quello più funzionale.

Ho “viaggiato” su facebook in questi ultimi giorni e nonostante il mio fastidio viscerale e intellettuale per questo scenario dove l’autismo di massa si produce compulsivamente, sorretto da quella vanità degli esseri umani che pare non avere mai fondo, ho letto delle cose interessanti. Più interessanti del solito. Facebook è un archivio, un immenso archivio disponibile in un attimo, ma soprattutto scorre come il tempo.
Leggendo ho pensato che il giornalismo dovrebbe prendere i fatti direttamente da qui, dalla loro interpretazione. E non dall’Ansa. Dovrebbe anticipare il meccanismo che produce. Sappiamo, infatti, che le notizie date dai media (le quali non sono i fatti e nemmeno la loro interpretazione) generano commenti e digressioni sulla rete, come se fossero scintille sul petrolio.
Ma se, invece, il giornalismo partisse proprio dalle interpretazioni, dai commenti e tentasse di restituirli o quantomeno scegliesse le “notizie” in base alla potenza, all’urgenza, perfino alla drammaticità dei limiti con cui sono espresse? Se partisse direttamente dal relativo, dagli “esiti” per costruire uno scenario ipotetico su cui riflettere, di cui sapere?
Il giornalismo televisivo già lo fa questo, per contrastare la velocità del web, la sua “democraticità”.
Ma altro è la citazione o la lettura asettica dei messaggi che ansiosamente tentano di partecipare alla diretta televisiva (in realtà aspirando al potere dello spettacolo), altro è un giornalismo capace di costruire dei collage, delle narrazioni articolate e “sospese” come foglie. Altro è un giornalismo interessato alla lettura dei fatti, a documentare i percorsi e i loro strati.
Certo scegliere è sempre una forma di potere e dunque non ci può essere un atto documentaristico o creativo che non comporti un’azione di selezione. Del resto perché avere paura di scegliere? Di esercitare un potere? Quest’idea che è passata in politica come nell’arte che il “potere” debba essere annientato tout court, che tutti possano esercitare “automaticamente” un potere o una funzione creativa – il surrealismo evocava non solo l’immaginazione al potere ma si augurava che tutti diventassero artisti – ha prodotto un degrado talmente evidente che non occorre, a mio parere, aggiungere nessun commento. Dal surrealismo al “68 la “liberazione” è diventata di massa e si è scambiata l’importanza delle pari opportunità per tutti con l’inutilità del rigore e della severità. Perfino delle regole e della selezione. A scapito della meritocrazia ma soprattutto della profondità.
Forse ci sono due vie per costruire un individuo libero: o lo si costruisce con l’educazione (un’educazione attenta e maieutica) o lo si lascia allo stato brado. La via di mezzo, in questo caso, porta altrove. Porta alla finzione o meglio all’illusione, di cui la nostra società si nutre costantemente.
Mi rendo conto di essermi addentrato in un’area  pericolosa e mi fermo qui.
La mia intenzione del resto era solo quella di parlare della scrittura o forse di giornalismo, visto che  queste “cose” trovate su facebook mi hanno fatto venire voglia di raccoglierle e di provare ad ordinarle. O di farle scorrere ancora, di liberarle da loro stesse. In fondo se il tempo non esiste lo spazio dov’è?

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