Con una mano creava la base e con l’altra volava. Ma spesso andavano insieme, una sopra e l’altra sotto, una a destra e l’altra a sinistra. Oppure, quella che volava, volava per servire quella che girava come una ruota e così quella che girava (la base) diventava la vera anima libera.

La morte di Ray Manzarek, tastierista dei Doors, mi addolora. Sulle sue note sono cresciuto, è cresciuta forse una delle mie parti migliori.
Era un architetto e mi ha permesso di costruire l’anima mentre lo ascoltavo e mi guardavo intorno nelle serate dei primi anni ‘80. Mentre, aggirandomi tra i corpi dei miei coetanei che ballavano o fumavano, ereditavo, senza neanche saperlo, la profondità, l’inquietudine e la vitalità del ‘900, la sua capacità di abbandonarsi al tempo. Era, la sua musica, ipnotica e pure maieutica. Ti prendeva e si impossessava di te eppure ti lasciava fare, anzi ti spingeva  a fare. Non pensavi più alla timidezza, all’inutilità del fare, alla possibile vergogna del fare, ma facevi come un marinaio attaccato alle vele, elegante perché in intimità con te e con il mondo. La sua musica ha reso migliori tante persone. Ne sono convinto.

Ray aveva dentro Bach e il jazz, il demone del violino e la dodecafonia delle avventure terrene. Suonava molto ma non stancava chi lo ascoltava, come se il silenzio se lo portasse dietro, se lo portasse a cavallo. E il silenzio si facesse cullare da lui, si fosse abbandonato alle sue mani.
In realtà non stancava perché era semplice, lineare, a servizio. A differenza di tanti pianisti che si masturbano con il loro strumento, dimenticandosi del pubblico.
Certi suoi assoli si avvicinano al cinema di Kubrik, metafisicamente cristallini, come tracce create per altri mondi. Con la schiena piegata sulla tastiera, perfettamente presente e pure immerso, era la barca su cui poteva procedere la voce di Jim Morrison. E su cui molte persone, di almeno due generazioni, si sono liberate da se stesse. Crescendo protette.

Se non avessi avuto la sua musica sarei diventato più fragile.
Il rock è una delle cose più intense dell’epoca moderna. Io lo sento più vicino al cinema che al teatro, più vicino al sesso che alla vita. Il rock ha, o aveva, la capacità di fermare il mondo. Questa è stata la sua vena rivoluzionaria. Non di cambiarlo, né di attaccarlo, né di usarlo. Ma di fermarlo.
“Che cosa accadrebbe se invece di limitarci a costruire la nostra esistenza avessimo la follia o la saggezza di danzarla?” scriveva R. Garaudy introducendo il suo libro Danzare la vita, sulla storia della danza moderna.
Il rock dei Doors era così centrato sulle sue gambe, così in sintonia con il suo peso, che poteva ballare e far ballare, camminare sull’acqua e sostenere altri corpi. Il suo ritmo è il ritmo di qualcuno o qualcosa che naviga verso le colonne d’Ercole non tanto per cercare un’isola che non c’è, ma per aprirsi con volontà e coraggio all’ignoto spazio profondo, per citare un film di Herzog, il regista vivente, a mio parere, più rock che ci sia. Ma se ci si vota allo spazio, se si aprono le porte della percezione, piano piano si comincia ad appartenere al suo stato liquido, dato che lo spazio non solo non è un contenitore passivo ma è un oggetto in movimento continuo.
Così Manzarek che guidava la nave, con la fermezza e la bellezza di una sensibilità calma e intelligente, ha portato Morrison a inoltrarsi negli abissi prima oscillando come un Amleto che ha capito che tra il dubbio, tra l’essere o non essere, è possibile scegliere l’oscillazione, ovvero l’essere e il non essere, e poi sperdendosi nello… “spazio cosmico, nell’universo, con tutto il suo vissuto”, come ha detto Manzarek ad un giornalista italiano che gli chiedeva se Morrison poteva essere salvato.

Nella stessa intervista Manzarek rivolgendosi alla camera dell’operatore, dunque a noi tutti, e specie ai giovani, dice che se vogliamo essere come Morrison dobbiamo leggere i libri, pensare, conoscere.
Non solo è difficile che a dire una cosa del genere sia un musicista rock, ma se poi lo dice un cavaliere che ha disegnato la tempesta, che ha scatenato Dioniso e la sua ebbrezza primordiale, potrebbe apparire ancora più inatteso.
Ma i Doors non sono stati, a mio parere, il gruppo più intellettuale della beat generation, quanto quello più autonomo dall’immaginario funzionale, dalla fabbrica dei desideri. Naturalmente anche loro sono diventati oggetto di desiderio e hanno cavalcato certi schemi tipici del prodotto, ma non hanno, fondamentalmente, venduto la loro ricerca.
Per questo dalla loro musica proviene un senso di assenza, che porta il rock, verso la lontananza del blues, la sua “chiusura”, anche se più che un lamento, in essa si celebra l’ascesi e il camminamento.
La rinascita del serpente.
A mio parere solo Marley, anni dopo, ha trasmesso la stessa forza. La stessa adesione all’avventura dell’uomo, incisa nella circolarità del reggae.

Insomma esiste un rock, paradossalmente quello più “sballante”, che è nato dalla lucidità, intesa come organicità tra corpo e mente, tra radici nell’equilibrio (compositivo, ritmico, energetico) e radici nell’ignoto e nell’immaginazione. Un rock aristotelico che funziona per gradi e che porta a vivere la fine come un inizio misterioso.
Ora, che Manzarek si è disperso anche lui nel cosmo, penso che bisognerebbe portare la sua musica nelle scuole e nelle sedute terapeutiche con cui tante persone cercano di alleviare il loro mal di vivere. In fondo il valore più importante di un’opera creativa è nel suo poter essere terapeutica, nel suo reale potere curativo.
Purtroppo l’arte ha perso molto il suo potere. Non solo o non tanto per stanchezza interna (bisogna stare attenti a non identificare il potere “meraviglioso” o “decadente” di un linguaggio con l’arte di usarlo) ma per la stanchezza dell’umanità. E per la perdita dell’aura dell’atto creativo (che può andare oltre l’aura dell’opera) il quale, generando un’eccezionalità, una deviazione e dunque un evento, potrebbe incidere in quella complessa materia sensibile che è l’uomo. Sensibile e dubbiosa.

Ma restando sulla musica, certamente l’arte  più curativa che ci sia, prendiamo per esempio la taranta salentina, tanto in voga negli ultimi anni, che, nata da una necessità terapeutica, oggi non riesce più a curare molto, a mio parere. Anzi, si potrebbe perfino dire che contribuisce all’assenza di lucidità che regna nell’aria. I motivi di ciò?
La taranta è ripetitiva, potente, ma “autistica”. E’ nata per curare le nevrosi femminili, l’isteria prodotta dalla repressione e dalla violenza sessuale. Per accogliere quella pulsione ad uccidere il maschio e il tempo che opprimono.
Dovendo contenere questa energia distruttiva, la musica si piega sulla malata e ne assume le sue forme ossessive. Per liberarle attraverso la “ripetizione”, che può essere una via molto potente.
Ma affinché questo potere liberatorio possa esplicarsi, la taranta deve essere “concentrata”.
Deve prima isolarsi dal mondo e restare sola con la sua paziente, entrare nel suo ritmo e spostarla attraverso una ritualità che deve proteggere la tarantata dal suo stesso desiderio di tornare nel mondo, dalla sua stessa vanità o tensione a mostrare le sue vesti lacerate. Almeno fino a che essa non sia pronta per il pubblico, per la messa in scena catartica. Liberando, nel suo teatro, quel doppio che possa ridarle un equilibrio, l’armonia perduta: il doppio che prevede l’interiorizzazione della musica, la sua “entrata” totale dentro il corpo per restituire forza e struttura. In modo che la persona possa poi affrontare nuovamente, o questa volta davvero, il teatro della vita. La sua crudeltà.

Insomma c’è un rituale, una gradualità da seguire.
Se si porta la taranta nel mondo per fare s-ballare le persone, per alleviare la loro inquietudine dandogli l’illusione di poter ritrovare il ritmo della terra, l’ebbrezza pulsante, solo per il fatto di usare una radice “popolare”, di collegare degli esseri senza più memoria ad una tradizione rimasta nell’aria, ebbene il risultato è che la ripetizione invece che diventare una via omeopatica, diventa una maschera alienante. Un’altra perversione un po’ inutile.
Forse il mio giudizio è eccessivo e del resto ascoltare la pizzica-taranta e ballarla in una piazza gremita del Salento, in mezzo alla pietra madre (e dunque protettiva) dei suoi palazzi antichi, può essere certamente piacevole e liberatorio. Ma quella stessa musica arrivava un tempo più in profondità sulla pelle e dunque è come prendere uno sciamano, levarlo dalla sua dimensione “straniera”, dal suo sostare vicino all’altrove (che sono le cose che più curano), dai suoi attrezzi principali che sono lo spazio e il tempo, dalla sua aura vitale e misteriosa, e gettarlo in pasto alla folla, per accontentare i suoi bisogni di un’alterità esotica e illusoria che non faccia pensare non tanto ai nostri mali e alle sue vere radici, ma alle nostre possibilità sempre e comunque… latenti.

Certamente, questo processo di uso e consumo della taranta è stato possibile attraverso quello spaventoso ingranaggio del nostro tempo che è il marketing territoriale. Un sistema giustificato dalla questione economica, dall’opportunità che il turismo rappresenta per l’evoluzione economica di un territorio. Senza pensare che vendere il territorio, trasformandolo in un “prodotto tipico”, è un atto miope oltre che insano.
Da dove nasce il turismo? Lasciamo stare il discorso sui bisogni indotti e ammettiamo ingenuamente che esso nasca dalla voglia che le persone hanno di riposarsi dal loro tram tram quotidiano e di conoscere altre cose. Ma queste altre cose, se diventano, si trasformano in meri prodotti attraverso il processo di estrema commercializzazione ed enfasi che esse subiscono, non finiscono per assomigliarsi (sia mentalmente che fisicamente) ai prodotti delle altre terre? Non perdono, cioè, la loro essenza reale, la loro unicità e dunque, più che tipicità, direi originalità? 
Non dico niente di nuovo, da Marx a Mc Luhan, tanti lo hanno osservato questo meccanismo. L’alienazione della merce prevede che anche il viaggio, la scoperta, diventi un “evento” di consumo, ovvero si riduca ad essere il consumo.
Le cose si smarriscono e restano i simulacri o un mondo dove il messaggio impera e, alla fine, la comunicazione è il prodotto, non tanto le “esperienze”… vere.  Così può regnare il conformismo del consumo di massa.
Oggi, poi, che questo consumo ha cominciato, per varie ragioni, ad esplodere seriamente, ci accorgiamo che la gabbia nella quale ci siamo ficcati è talmente generale che uscirne appare improbabile quanto entrare nella cruna di un ago. Ipotizziamo, vediamo, tentiamo di perseguire forme di sviluppo alternative ma il sistema è così radicato che sembra di stare nelle sabbie mobili: più ti muovi e più vai giù.

Purtroppo non è stata solo la nostra mediocre classe politica a favorire la costruzione dei prodotti tipici ma soprattutto gli stessi intellettuali, gli stessi creativi.
E questo perché, a mio modesto parere, gli intellettuali non hanno pensato o studiato più molto ma si sono spaventati e impigriti, o perché, ad un certo punto, si sono accorti di non avere più gli strumenti per restituire l’immaginario della realtà.
Per narrare non ci vuole solo impegno, metodo, senso del ritmo  o una dose di ragionevole dubbio ma anche una passione autentica. Altrimenti la narrazione non funziona, si blocca. Al limite si astrae troppo e perde il contatto con la realtà, diventando un po’ inutile. La narrazione comporta un equilibrio, una capacità di camminare sul filo… delle cose. E la passione comporta una relazione autentica con il dolore e con la gioia.
Forse la passione prevede anche un senso dell’onore. Quel misto di cose che fa in modo che si riescano ad affrontare le ingiustizie e le tentazioni del mondo. Intendendo per tentazioni, non tanto ciò che chiede il nostro abbandono alla vita, la nostra adesione allo scorrere delle cose, ma ciò che ci leva dal vero accordo, dal vero piacere di esserci. E ci getta nella vergogna e nella viltà.

Il vero e più straordinario narratore moderno è stato Cervantes e il suo Don Chisciotte sapeva bene cosa era l’onore! Ma con la fine del Novecento l’onore è caduto in disgrazia e così i prodotti tipici hanno invaso il mondo.
Ora, perché questa passione sia venuta meno è un discorso complesso. Dunque, mi fermo qui accorgendomi che la morte di Manzarek mi ha portato lontano nel tempo e nello spazio. Mi ha portato a Don Chisciotte.
Ma deve esserci un filo in questo tragitto. Sarà che Riders on the storm è una delle canzoni più belle dei Doors e che la tempesta può verificarsi in ogni momento della nostra vita. Sarà che non riesco proprio ad immaginare Don Chisciotte che si cura con la taranta o che combatte contro la camorra gomorriana, ma lo intravedo invece aspettare su una collina, ancora in disparte, pronto a venire giù per salvare l’onore. Sono sicuro che tra i cavalieri che suoneranno la carica, ci sarà Manzarek.
Con tutto il suo fuoco ancora acceso.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *