Le cornacchie sono sempre solitarie in fondo. Forse femmine, forse vergini, forse transessuali troppo intelligenti o forse maschi abbandonati, se ne stanno in periferia, vagando sulle strade selvagge che scorrono ancora vicino a radure, alberi e sassi.
Guardandole, si potrebbe dire che esse non cercano né uccellini né uccellaci, né banditi né visioni. Ma che sanno aspettare con infinità eleganza. Con un silenzio, certo, affascinante.

Intanto gli anni passano. Oggi è il compleanno di un morto, domani di un vivo. Presto lo sarà anche di un fantasma che s’aggira alla ricerca di sé.
Il gioco è cominciato, del resto, da molti anni. Prima ci si nascondeva tra le stalle e i cespugli della dolce campagna. Si correva incontro alla sera, tra boschi e bagliori, con un candore e una mestizia che solo F. Kafka poteva raccontare così… sulla strada maestra.
Poi le stelle e la sera, le vigne e gli abbracci, non sono più bastati. L’ambiguità è venuta a prenderci  con una promessa così sospetta eppure così sicura di sé che ci ha portato lontano… nel vortice meccanico, dove le macchine già sfrecciavano, verso quella dolce vita che avevamo sempre desiderato.
Attraversando la giungla d’asfalto e poi il fumo dei locali, nei quali specchiare le deformità delle nostre anime, abbiamo creduto, allora, che fosse il tempo a corromperci.
Forse per questo le cornacchie ci hanno lasciato andare, senza preoccuparsi più di tanto.
Le cornacchie, in fondo, hanno molta saggezza e hanno capito che la resa era quello di cui avevamo bisogno.

Immaginiamo di essere in campagna. Di non essere qui davanti ai nostri schermi che ci imprigionano, ma di esserci sperduti oltre la città. In quel paesaggio muto che sembra avere confidenza solo con la luna e le belle stelle.

Immaginiamo di aver sentito improvvisamente la voglia irrefrenabile di lasciare la nostra casa e la città, di lasciare perfino l’immagine delle nostra casa  e della nostra città e di esserci diretti con calma e determinazione verso il mondo che sta sempre sotto il cielo.

Immaginiamo che ad averlo fatto, l’altra sera, sia stato anche il panettiere che portava il mio cognome il quale per una multa di 2.000 euro… Che, prima di aprire il suo commercio e di ritornare al suo lavoro, quest’uomo abbia sentito il dovere di andare a trovare un albero al quale una volta aveva appoggiato lo sguardo, seppur distrattamente.

E immaginiamo che, una volta uscito dal suo paese, egli abbia incontrato due uomini alla guida di un’auto sportiva, di quelle che sono facilmente inclini all’arte del sorpasso. Dico due alla guida perché proviamo anche ad immaginare che questa macchina abbia due volanti, uno a destra e uno a sinistra.
E immaginiamo ancora che, pur rinserrato in se stesso, e poco attento alla strada, l’uomo abbia guardato solo per un attimo i due nella macchina.

Una macchina che si ferma nel tramonto in aperta campagna e che carica un terzo passeggero, fa sempre pensare a qualcosa di sconveniente.
Ma ho trovato il modo di riparare a questo sospetto: dato che non c’è nulla di più rassicurante di un poeta morto, immaginiamo che al volante ci siano il sign. Fellini e il sign. Pasolini.

Anche lei va lontano?
La vocina del sign. Pasolini è rispettosa e piena di pudore e al panettiere basta un cenno del capo per rispondere di si.
Il sign Fellini, allora, accelera e riparte come se non ci fosse null’altro da dire e soprattutto null’altro da fare.
Così, in silenzio, i tre procedono per molto tempo, sfiorando centri abitati e capannoni fino ad arrivare sulle montagne dell’Appennino.

Immaginiamo che sia notte ora e che i tre siano scesi dalla macchina e camminino su un muretto di campagna casuale ed inutile, cresciuto per non riparare altro che qualche topo e serpe nelle stagioni meno propizie.
Immaginiamo che il panettiere sia in mezzo ai due poeti ma che non abbia nulla da dirgli.
La notte li ha liberati da qualsiasi dovere, da qualsiasi pressione. Da qualsiasi fiducia e protesta.
Pasolini, del resto, aveva deciso, ancora in vita, di smettere di scrivere in italiano come forma di protesta contro la classe media del suo paese. Aveva rinunciato alla sua lingua e alla sua nazionalità. E Fellini si era specchiato, vicino alla fine, nella luna calante dei suoi sogni, desideroso di non morire  senza aver vicino il suo cavallo, ma certo con poca voglia di gridarlo al mondo. Insomma di farlo come un indiano d’america innamorato solo delle praterie e di Manitù.

Dunque, essi procedono in un silenzio perfetto e credo che non ci resti di meglio che immaginare di lasciarli in quella perfezione, di allontanarci da loro senza chiedergli o rubargli nulla che non sia il silenzio.

– Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare,  mi ridà forza… vita?
Vi domando scusa dolcissime creature. Non avevo capito, non sapevo… com’è giusto accettarvi, amarvi e come è semplice.
Luisa mi sento come liberato, tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero.
Ah come vorrei sapermi spiegare… ma non so dire. Ecco… tutto ritorna come prima, tutto di nuovo confuso. Ma questa confusione sono io. Io come sono, non come vorrei essere e non mi fa più paura… dire la verità…. quello che non so, che cerco e che non ho ancora trovato. Solo così mi sento vivo e posso guardare i tuoi occhi fedeli senza vergogna.  È una festa la vita. Viviamola insieme!… Non so dirti altro, Luisa, né a te né agli altri. Accettami così come sono, se puoi.
È l’unico modo per tentare di trovarci.

– Non so se quello che hai detto è giusto. Ma posso provare, se mi aiuti…

– Vigliacco!
– La mia principale qualità è quella di restare inalienabile.
– E allora inalienabile per inalienabile perché non vieni con noi a Berlino? A partecipare alla prima e forse unica marcia tedesca per la pace?
– Perché oggi, un giorno di agosto del ’67… non ho opinioni.
Ho tentato di averne e ho fatto di conseguenza il mio dovere. Così mi sono accorto che anche come rivoluzionario ero conformista.
– Ma il conformismo ti porta altre preoccupazioni, per esempio occuparti delle industrie di tuo padre.
– Si però in compenso mi protegge dal terrore..

Sbagliando s’insegna, disse Carmelo Bene una volta.
Fellini ha insegnato molto, anzi ha condizionato molto. Se avesse fatto 8 invece che otto e mezzo, oggi, forse, saremmo in una diversa confusione. In una diversa inalienabilità.
E Pasolini, dal canto suo, continua a sbagliare senza sosta perché un conservatore non può restare così attaccato al futuro.  Un reazionario non può profetizzare senza perdere il suo sogno.
Speriamo, allora, che gli errori della fine di un inverno del 2014 insegnino a noi tutti che, marcia o non marcia, possiamo ancora trovare molte cose preziose e originali nel silenzio.
Il silenzio, in fondo, non è solitario.
È più simile ad una macchina o un treno che va e da cui possiamo ancora vedere.
Morendo nell’estasi ancor prima che nello scontro. O, al limite, accorgendoci ancora che le cornacchie, lì dove sono, non sono né felici né tristi… per noi… ma solo tragicamente preoccupate per la diossina delle campagne che attraversano sempre. Beccando, per questo, con più prudenza e circospezione del passato e, speriamo, dell’infinito futuro.

P.S.
Che mostruosa presunzione credere che gli altri si gioverebbero dello squallido catalogo dei suoi errori! A dirlo è il critico che aspetta in macchinaGuidoSnaporaz prima del suo celebre monologo.

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