Festina lente. Affrettati lentamente; affrettati piano; affrettati adagio. Così si può tradurre questo… adagio, che, se non ricordo male, Svetonio attribuisce ad Augusto ed è diventato, secoli dopo, il motto di Aldo Manuzio. Si tratta evidentemente di un paradosso, di un ossimoro: gli elementi in contrasto sono qui la voce verbale festina (affrettati) e l’avverbio lente (lentamente) e la velocità dell’affrettarsi è palesemente in contrasto con la lentezza.

Abbiamo, nell’ammonimento, un misto, una mescolanza: una esortazione a fare in fretta e una esortazione a procedere senza fretta. Ed è soprattutto l’esortazione alla lentezza, alla pazienza, al saper aspettare che penso possa rivolgersi a chi vive al tempo d’oggi; un tempo in cui è forte la spinta a voler ottenere tutto alla svelta; tutto e subito, magari seguendo scorciatoie poco… onorevoli. Del resto, la fretta eccessiva, la precipitazione, sono nemiche della precisione, dell’accuratezza. Un proverbio suona: la gatta frettolosa fa i gattini ciechi. Una cauta prudenza, che esclude la “precipitosità” può dar frutti migliori, più solidi, più duraturi di quelli ottenuti con troppo facile velocità. Prudenza e pazienza – attenzione – sono virtù. E come dimenticare che, secondo la tradizione indù, l’Età oscura (quella che stiamo vivendo), il Kali Yuga, è caratterizzata da una velocità sempre maggiore in ogni campo, in ogni settore? E dunque, cerchiamo di andar piano, cerchiamo di fermarci per riflettere, per maturare; seguiamo lo slow e non il fast.

Ma allora, che senso ha il festina, la spinta ad affrettarsi? Forse si intende dire che bisogna essere rapidi e pronti nell’adattarsi alle situazioni (magari di pericolo), ai cambiamenti, pur sapendo poi aspettare con pazienza gli eventuali risultati della nostra azione. O che dobbiamo procedere con tendenziale lenta accortezza salvo ad accelerare quando la situazione esterna lo richieda. Forse dobbiamo sostituire al “tutto e subito” il “presto e bene”. Oppure ancora: siamo rapidi e pronti nel fare il nostro dovere o anche il nostro piacere (perché no?) e però viviamo intensamente ogni istante come fosse una eternità.

Ancora: il paradosso presentato dalla massima in esame, per la sua impossibilità di comprensione a livello logico-discorsivo, potrebbe avere la stessa funzione di un koan zen: produrre un corto circuito mentale che possa portare al satori, ad una illuminazione; farci avvertire che solo ad un livello superiore di conoscenza (e di coscienza) può aversi la coincidentia oppositorum.

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