Sono un tecnico biologo del mare. Sono nata e vissuta a Taranto per quasi mezzo secolo.
Anni fa, mia figlia Francesca si è ammalata in un modo preoccupante: i suoi globuli bianchi erano aumentati di numero in maniera esponenziale, tale da far pensare a una leucemia. Il grande professore da cui ci siamo fiondati, brache in mano e palle a terra, ci disse, testualmente: “Siete di Taranto? Uhmm… allora dobbiamo vedere bene di che si tratta”.

Capito? Mia figlia era candidata al tumore per appartenenza geografica. Ecco perché ora viviamo lontano dalla nostra Città dei due Mari (Taranto è posta su una laguna che per caratteristiche morfo ambientali rappresenta un ecosistema unico!). A quella Città abbiamo legato i nostri ricordi d’infanzia: eravamo magri, abbronzati come etiopi e sempre bagnati, in un posto dove è impossibile non saper nuotare, impari da neonato! In quella Città abbiamo tanti amici. Non rimpiangiamo assolutamente di essere fuggiti. Avrei tanto da dire in merito. Quando ero ragazza mi hanno fatto studiare i Carmina di Orazio sul Galeso:

E se il destino avverso mi terrà lontano
allora cercherò le dolci
acque del Galeso caro alle pecore avvolte
nelle pelli, e gli ubertosi campi che un dì
furono di Falanto lo Spartano.
Quell’angolo di mondo più d’ogni altro
m’allieta, là dove i mieli a gara con quelli
del monte Imetto fanno e le olive quelle
della virente Venafro eguagliano;
dove Giove primavere regala, lunghe, e
tepidi inverni, e dove Aulone, caro pure a
Bacco che tutto feconda, il liquor d’uva dei
vitigni di Falerno non invidia affatto.
Quel luogo e le liete colline Te chiedono
accanto a Me; dove tu lacrime spargerai,
come l’affetto tuo esige nei confronti miei,
sulla cenere ancòra calda dell’amico tuo
poeta.

Noi siamo emigranti, rifugiati. 
Oggi, se vai a Taranto, ti sembra di atterrare sul Pianeta Rosso: una nebbia sanguigna copre ogni cosa: le strade, i palazzi, le tombe al cimitero… Sono le polveri di ferro che abbiamo respirato. E ancora ci chiediamo se sia giusto barattare la morte per fame con la morte per cancro. Eh, sai, quella è la più grande acciaieria d’Europa! Non si può fermare! In nome della DEA PRODUZIONE dobbiamo morire. E siamo sempre morti senza fiatare.

Morta la storica mitilicoltura, morte le pecore delle antiche masserie che producevano formaggio alla diossina, morto il turismo e il sano, compatibile sfruttamento di risorse a impatto ambientale zero. Io, tecnico biologo DEL MARE a Taranto non ho trovato uno straccio di lavoro (non ero così male e neanche troppo choosy!). Hanno portato a Taranto un mostro che esige il suo tributo giornaliero di vittime umane. Ma offre pane a quelli che lavorano per lui. Pane avvelenato di benzoapirene e hanno fatto credere che non avevamo altro per campare. Noi, colpevolmente lo abbiamo creduto. Perché i tarantini sono mosci e preferiscono fare le pecore alla diossina, piuttosto che diventare lupi e divorare il tirannico pastore. I Tarantini amano l’Uomo forte, infatti hanno scelto Cito (fulgido esempio di HOMO FORTIS ITALICUS) e se lo sono tenuto, lui e gli amici suoi.

Taranto ha una storia di scelte sbagliate, a cominciare da Cartagine quale alleata contro Roma. Un disastro dopo l’altro per la capitale della Magna Grecia. Oggi è un po’ come Roma, seduta su un tesoro e preferisce ignorarlo: si scava ed emergono tombe etrusche e greche. Si richiude subito, per costruirci sopra un centro commerciale. 

A Taranto, l’Ilva non paga neanche la tassa sulla proprietà (la paga al comune di Milano) e occupa un territorio grande più della città stessa! Per non parlare delle immissioni che avvelenano un territorio molto più ampio!

Nella guerra fra poveri, nella meschina diatriba tra operai e cittadini Riva non entra. Sta a guardare, da lontano, mentre i poveracci si scannano e fermano il traffico sull’Appia e sul Ponte Girevole. Nove miliardi e mezzo di fatturato dichiarato dall’Ilva e sai che ha fatto per Taranto? TRE fontanelle al cimitero. TRE. Così quando moriamo avremo i fiori freschi garantiti. Di colore Rosso.

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