Alla Scala c’è praticamente già stato il passaggio di consegne tra Stéphane Lissner e Alexander Pereira, il nuovo sovrintendente che si insedierà nel 2015 ma che comincia già a lavorare alla programmazione musicale delle prossime stagioni. Intanto si è aperta l’ultima firmata Lissner, che, penalizzata dalla congiuntura economica, conta solo dieci opere anziché le tredici dello scorso anno, ma dimostra ancora la sua vitalità e il suo respiro internazionale.

Le danze sono state aperte dalla discussa Traviata messa in scena da Dmitrij Černjakov, in questo mese è in scena una Cavalleria rusticana diretta da Daniel Harding con la regia di Mario Martone. Seguiranno Lucia di Lammermoor (dal Metropolitan, con la direzione di Pier Giorgio Morandi e la regia di Mary Zimmerman), un Trovatore diretto da Daniele Rustioni, con regia di Hugo De Ana, La sposa dello Zar di Rimsky-Korsakov, ancora affidata a Černjakov e con Barenboim sul podio, Les Troyens di Berlioz nella applaudita produzione londinese di Pappano, l’Elektra di Strauss ripresa dal festival di Aix-en-Provence (firmata da Esa-Pekka Salonen e Patrice Chereau), una nuova produzione di Così fan tutte di Mozart, affidata alla regia di Claus Guth (ancora con Barenboim sul podio), Le comte Ory di Rossini (diretto da Donato Renzetti, con la regia di Laurent Pelly, e Juan Diego Flórez come top player), la ripresa del Simon Boccanegra messo in scena nel 2010 con Leo Nucci e Placido Domingo che si alterneranno nel ruolo del protagonista. 

Una ricca stagione concertistica
Ancora più interessante, per il livello degli interpreti, la varietà delle proposte, il gusto per le novità, appare la stagione dei concerti che affiancheranno la programmazione operistica. Dopo un bell’omaggio a un decano della direzione d’orchestra come André Previn, che ha diretto la Terza e la Quarta di Brahms, si è ascoltata una bellissima esecuzione dell’oratorio Elias di Mendelssohn, con l’Orchestra e il coro del Teatro alla Scala guidati da Daniel Harding: scelta sofisticata e non banale come concerto di Natale (che peraltro di natalizio non aveva nulla), oltre che una partitura di rarissima esecuzione soprattutto in Italia. La lettura di Harding è parsa calibratissima, asciutta, quasi austera, ma capace di svelare le sontuose strutture polifoniche create da Mendelssohn soprattutto nelle grandi pagine corali, e di imprimere all’oratorio una dimensione epica, solenne, grazie anche all’ottima prova dei solisti, il baritono Christian Gerhaher, Sarah Connolly, Julia Kleiter, Andrew Staples, e dei bambini del Coro di Voci Bianche dell’Accademia. Sul podio della Filarmonica della Scala saliranno poi Barenboim (con la Quinta di Čajkovskij e il Falstaff op. 68 di Edward Elgar) e Salonen (con sinfonie di Beethoven e Mahler); ci sarà un Ciclo Strauss per celebrare i 150 della nascita del compositore tedesco, con tre programmi sinfonici (diretti da Salonen, Chailly e Philippe Jordan) che comprenderanno anche tre prime assolute di Bruno Mantovani, Luca Francesconi e Wolfgang Rihm; ritorna il Progetto Pollini con quattro appuntamenti che chiameranno in causa anche il Klangforum di Vienna e l’ensemble Musikfabrik di Colonia, e che affiancheranno le Sonate di Beethoven con lavori di Sciarrino, Stockhausen e Lachenmann. Ma ci saranno ancora due prime mondiali: nel concerto diretto da Susanna Mälkki, dove accanto a Bartók e Berio verrà eseguito un nuovo pezzo per violoncello e orchestra di Stefano Gervasoni, intitolato Heur, Leurre, Lueur (solista Francesco Dillon); e nel concerto diretto da Antonio Pappano, che accanto a Ma mère l’oye di Ravel e la Symphonie fantastique di Berlioz vedrà la prima esecuzione assoluta di un lavoro per orchestra di Riccardo Panfili, intitolato L’Aurora.


traviata 4Lissner e l’innovazione / Pereira e la tradizione

Certo, rispetto a questo panorama, tipico del gusto innovatore e provocatorio di Lissner, stridono le dichiarazioni del suo successore Pereira e del nuovo direttore musicale, Riccardo Chailly, che hanno parlato di tradizioni e radici, del ritorno al belcanto italiano, della Cena delle beffe di Giordano, di un progetto Puccini. Ma c’è da credere che non sarà un ritorno al passato, perché anche la nuova dirigenza pare condividere l’idea, ormai consolidata nella cultura del Teatro alla Scala e nel suo pubblico, che nel teatro d’opera la tradizione è importante, ma è cosa diversa rispetto alla conservazione, che si possono (e si devono) riproporre titoli del grande repertorio (ma non solo quelli), e che però la funzione di un regista è proprio quella di vitalizzare questo genere, non di imbalsamarlo nella routine, di trasformarlo in un oggetto da museo, di avvolgerlo nella nostalgia dei bei tempi andati. A costo di suscitare polemiche e dissensi. Un interessante, plastica dimostrazione di questo punto nevralgico nelle scelte artistiche di un teatro d’opera è stata La Traviata, che ha aperto la nuova stagione, segnando anche il ritorno di Daniele Gatti sul podio scaligero. I detrattori di Černjakov (stigmatizzati da Lissner come «talebani») hanno subito contestato e deriso la sua regia. Ma non hanno probabilmente compreso il senso di questa lettura teatrale, che è parsa tutt’altro che provocatoria o scandalosa, anzi molto realistica, profondamente umana, solo fuori dal solco delle consuetudini, tanto più forti quanto più un’opera è nota. Era una regia costruita sostanzialmente sulla recitazione dei personaggi, su dialoghi di sguardi, che evitava i monologhi e preferiva abbinare a ciascun personaggio, quando rimaneva solo con i suoi pensieri, un alter ego: la cameriera Annina (Maria Zampieri) che appariva come una comprensiva maitresse, dai capelli corti e rossi, sempre accanto a Violetta, e il servo Giuseppe (Nicola Pamio) che ascoltava silente gli sfoghi di Alfredo. Anche la privata confessione di Violetta, alla fine del secondo atto («Alfredo, Alfredo di questo core / Non puoi comprendere tutto l’amore»), era rivolta direttamente all’amato.


traviata 2Alfredo e le zucchine a fette

Tutto appariva pensato teatralmente, anche i gesti più semplici, banali, come quelli di Alfredo che alle parole consolatorie del padre (nella scena VIII del secondo atto) reagiva tagliando nervosamente delle zucchine fino a ferirsi: un gesto automatico, stizzito, dal quale trapelava tutto il suo dolore, la ferita profonda che gli aveva provocato la lettera di Violetta. E tutto l’allestimento pareva ruotare intorno alla figura di Violetta Valéry, le cui emozioni sembravano riflettersi direttamente nella scenografia, disegnata dallo stesso Černjakov. Nel primo atto Violetta si muoveva disinvolta nel suo grande salone, come una figura dal carattere forte, anche un po’ cinica e disincantata; nel secondo sembrava una donna realmente decisa a cambiare vita, perfettamente intonata con l’ambiente rustico che la circondava, un grande cucina superattrezzata dove irrompeva con un fascio di sedani e in un abbigliamento molto dimesso, mentre Afredo impastava felice una pizza; nel festino in casa di Flora pareva invece allucinata, quasi estraniata (grazie anche all’intelligente gioco di luce e buio intermittente) dalla folla gaudente che la attorniava; nel terzo atto era una donna alla deriva, nevrotica e alcolizzata, abbandonata nella sua grande stanza senza nemmeno un letto, solo un grande piumino nel quale si avvolgeva come per sparire dal mondo, delle bottiglie ormai vuote, il grande specchio con cui si confrontava anche nel primo atto. Bellissima, e molto umana, la sua reazione alla lettera di Germont: una lunga pausa di silenzio e un «È tardi!» urlato con rabbia, sbattendo il bicchiere a terra. Diana Damrau ha colto con grande intelligenza teatrale questi aspetti e le trasformazioni del suo personaggio, sfoggiando i suoi sontuosi mezzi vocali, e una la grande attenzione alla parola. La sua impostazione belcantistica era in perfetta sintonia con le altre voci: il tenore Piotr Beczala, dotato di ottima tecnica, convincenti slanci espressivi, adatti al giovane e focoso Alfredo, un bel timbro, molto omogeneo, solo tendente a chiudersi negli acuti; il baritono Željko Lučić, un Germont insinuante, più freddo che aristocratico; Giuseppina Piunti, una Flora maestosa vocalmente e di grande presenza scenica. Alla raffinatezza della resa vocale corrispondeva la lettura orchestrale, antiretorica, quasi cameristica di Daniele Gatti, che usava un organico ristretto ma riusciva ad ottenere una pasta orchestrale sempre molto densa, piena di sottili fluttuazioni dinamiche, solo con tempi un po’ lenti che appesantivano l’azione.


136-207Scenografie d’altri tempi

Il confronto tra altri due spettacoli allestiti nell’ultimo scorcio del 2013, permette di approfondire queste riflessioni sull’importanza della dimensione del teatro e della regia nella sopravvivenza stessa del genere dell’opera. Il teatro lirico di Cagliari, come ultima opera dell’anno ha riesumato una vecchia edizione di Pagliacci che Franco Zeffirelli aveva creato per il teatro dell’Opera di Roma nel 1992. Al di là delle polemiche suscitate dai costi di questa operazione (dovute al ripristino del materiale scenico) e della circostanza celebrativa (si volevano in questo modo festeggiare i 90 anni del regista toscano), lo spettacolo è parso davvero come qualcosa di anacronistico, perché costruito su una moltiplicazione di cliché del passato, e sulla cattiva abitudine di saturare lo spazio scenico. La resa musicale è stata buona, con il giovane Marcello Mottadelli sul podio, l’ottimo coro preparato da Marco Faelli, il coro di voci bianche diretto da Enrico Di Maira, l’ottima Nedda di Cellia Costea e il convincente Canio di Rubens Pelizzari. E certo Zeffirelli è un uomo di teatro, che sa muovere le masse sul palcoscenico, sa creare molto dinamismo, giocare sul contrasto fra il dramma intimo (di Nedda e Canio) e l’ambiente che lo circonda. Ma inzeppare il palcoscenico di acrobati e saltimbanchi, mangiafuoco e gelatai, danzatori e prostitute, sullo sfondo di una degradata periferia del Sud, dal gusto un po’ fumettistico, piena di luci al neon, motociclette e roulottes, con i costumi variopinti di Raimonda Gaetani, non aveva altro risultato che distrarre dal dramma e dalle qualità musicali dell’opera. L’esatto contrario è ciò che ha fatto Christoph Waltz nel suo Rosenkavalier (foto in basso) messo in scena al teatro di Anversa. L’attore austriaco (noto come lo spietato colonnello nazista in Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, interprete anche in Django Unchained dello stesso regista, e in Carnage di Roman Polanski, vincitore di due Oscar e di un Golden Globe) si cimentava per la prima volta con una regia operistica. E il risultato è stato davvero rosenkavalier 01 mg 2469sorprendente. Waltz non ha cercato riletture fantasiose o effetti speciali, men che meno ha seguito il filone del Regietheater o delle sperimentazioni estreme cui quel pubblico è abituato. Per il suo Rosenkavalier (diretto da Dmitri Jurowski e magnificamente interpretato da Maria Bengtsson, Stella Doufexis, Christiane Karg e Jürgen Linn), è partito dallo studio del carattere di ogni singolo personaggio, leggendo il libretto di Hofmannsthal come fosse la sceneggiatura di un film, e ha condotto le prove con la meticolosità di un regista di teatro, curando ogni gesto, ogni sguardo, riuscendo a cogliere il sottile contrappunto tra la dimensione malinconica e quella farsesca che domina nell’opera. Ha trasportato la vicenda dai tempi di Maria Teresa a quelli di Strauss, sfruttando le scene di Annette Murschetz, essenziali, senza sfarzo, ma non prive di rimandi classicheggianti: giocate su una serie di pareti grigie che si spostavano creando sempre nuove prospettive, e su un raffinato gioco di luci diffuse, provenienti ance da lucernari sul soffitto. Ma l’essenzialità dell’apparato scenografico contribuiva soprattutto a focalizzare l’attenzione sui personaggi, sui loro movimenti, su una recitazione che appariva molto naturale, realistica, lontana da ogni cliché. Molto interessante anche la lettura del Rosenkavalier come una progressione drammaturgica legata al rapporto tra sfera pubblica e privata e alle trasformazioni dei rapporti sociali: infatti nel primo atto, concentrato sulla vita e sui rituali aristocratici, lo spazio scenico appariva chiuso su tutti i lati; nel secondo, dove entra in scena la borghesia, le pareti della casa di Faninal si aprivano su un corridoio; nel terzo, dove fanno irruzione le masse popolari, le pareti della  locanda, immersa in una luce soffusa, diventavano trasparenti, mostrando al di là una folla curiosa.

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