Il magistrato Pietro D’Amico, sostituto procuratore di Catanzaro, era un uomo colto, autore di libri di filosofia del diritto, e pieno di interessi.

Tre mesi fa però, nell’aprile 2013, D’amico decise di porre fine alla sua vita sottoponendosi al suicidio assistito in una clinica svizzera di Basilea. I suoi familiari appresero dell’accaduto solo dopo la morte del magistrato, quando la direzione della clinica dove era avvenuto il suicidio li informò con una telefonata. Fino a pochi giorni fa tutti erano convinti che a causare la scelta estrema di D’Amico fosse stata una malattia terminale diagnosticata al giudice calabrese da alcuni medici italiani e confermata dai sanitari svizzeri.

I risultati dell’autopsia, condotta dall’Istituto di Medicina legale dell’Università di Basilea sul corpo del magistrato, hanno però svelato un’altra verità: Pietro D’Amico non era affetto da nessuna malattia incurabile. A quanto pare la diagnosi, poi rivelatasi errata, non fu mai confermata da esami specifici e, secondo i legali della famiglia di D’Amico, l’errore medico convinse il magistrato che l’unica soluzione possibile fosse quella di togliersi la vita. Questa ricostruzione però non è l’unica possibile e neanche la più probabile: il sessantaduenne Pietro D’Amico era infatti affetto da una forte depressione e potrebbe essere riuscito, in qualche modo, a procurarsi una diagnosi falsa per poter accedere, più agevolmente, al servizio offerto da Dignitas, l’associazione svizzera che aiuta le persone a darsi la morte.

Cronaca di un suicidio
A stabilire la verità sull’accaduto saranno le inchieste della magistratura svizzera e di quella italiana ma gli interrogativi etici sulla vicenda restano aperti. A rinfocolarli ha contribuito anche un articolo del settimanale Vanity Fair in edicola in questi giorni. L’articolo racconta la storia di un italiano che va in Svizzera per morire tramite suicidio assistito e decide di farsi accompagnare, nel suo ultimo viaggio, da un testimone affinché racconti ciò che ha visto. Un viaggio in treno, da Napoli a Basilea poi il ricovero nella clinica dove, assistito da una dottoressa, l’uomo del racconto si toglie la vita aprendo la flebo che gli inietterà nelle vene il liquido mortale. Nell’articolo non si fanno nomi ma si tratta, in ogni caso, di una storia vera che sembra ricalcare perfettamente la vicenda di Pietro D’Amico, tantoché molti sono convinti che si tratti della cronaca delle ultime ore di vita del magistrato calabrese.

Un racconto molto forte che riporta al centro del dibattito italiano la questione dei temi etici, del fine vita, e della libertà di scelta. Il caso di D’Amico non è il primo del genere in Italia: nel 2011 Lucio Magri, dirigente del Partito Comunista e fondatore de Il Manifesto decise di morire in Svizzera tramite il suicidio assistito, proprio come il Magistrato calabrese. Lucio Magri non era malato, non aveva una patologia terminale o invalidante ma era caduto in una forte depressione dopo la scomparsa della moglie. Anche in questo caso dunque una scelta estrema, portata a compimento in una nazione dotata di una legislazione molto permissiva per quel che riguarda questo tipo di pratiche. L’articolo 115 del codice penale svizzero, infatti, prescrive che “chiunque, per motivi personali, induce una persona a commettere suicidio o lo aiuta in questo, sia rinchiuso per non più di cinque anni, sia che il suicidio sia stato effettuato o solo tentato”. Le associazioni come Dignitas, che ha aiutato D’amico a morire, interpretano la norma nel senso che chiunque aiuti a suicidarsi una persona in modo disinteressato, ovvero senza nessun fine personalistico, non è punibile dalla legge. Una interpretazione della legge dunque molto permissiva e, soprattutto, una pratica poco regolamentata tant’è vero che una sentenza della Corte europea dei diritti umani, arrivata a maggio di quest’anno, ha imposto alla Svizzera di chiarire  a chi è garantito, per legge, l’accesso al suicidio assistito. La decisione della Corte riguarda il ricorso di una donna di 80 anni, Alda Gross, che per anni ha chiesto invano l’accesso, sempre negatole dalle autorità elvetiche, al suicidio assistito per evitare il decadimento psicofisico a cui si va incontro con la vecchiaia.

Suicidio assistito ed eutanasia
Il suicidio assistito solleva innanzitutto interrogativi di tipo legislativo oltre che morale. È giusto che gli individui decidano autonomamente di poter morire? È lecito che lo Stato ponga dei limiti alla volontà di mettere fine alla propria vita che alcune persone manifestano? Quali sono i limiti da imporre a questa pratica là dove è consentita? Per rispondere a queste domande è necessario innanzitutto precisare cos’è il suicidio assistito. In termini tecnici si parla di suicidio assistito quando è il malato stesso a darsi la morte, magari mediante dei farmaci concessi dietro prescrizione medica e consentiti da una legislazione permissiva in tal senso. Quando invece c’è l’intervento attivo del medico nel procurare la morte si parla di eutanasia (letteralmente buona morte): l’eutanasia attiva però è vietata quasi ovunque nel mondo, mentre è molto diffusa quella omissiva che si ha quando i medici o i familiari di chi vuole porre fine alla propria esistenza interrompono le cure

Ragioni di pietà e compassione che possono stare anche alla base di un suicidio assistito per chi è convinto che i malati in fase terminale e afflitti da forti dolori debbano poter anticipare il momento della propria morte. Anche chi, da un punto di vista religioso o meno, sostiene che sia un dovere conservare la vita umana il più a lungo possibile può convenire che ad un certo punto debbano prevalere esigenze di compassione. Ma non sempre è possibile districare le ragioni della compassione da quelle fondate sulla concezione libertaria dell’esistenza . Secondo questa visione delle cose, che mette al primo posto la libertà, non è giusto vietare per legge il suicidio assistito perché, così facendo, si viola il diritto di proprietà che ognuno ha sulla sua stessa vita. Per questo, da un punto di vista libertario, lo Stato non avrebbe nessun motivo di intromettersi fra due individui adulti, capaci di intendere e volere, che stipulano un contratto in base al quale uno dei due aiuta l’altro a morire. La domanda giusta da porsi è allora se siamo o meno “proprietari di noi stessi”. Tutti su questo abbiamo pochi dubbi. La risposta è si. Ma fino a che punto?

Paradossi della proprietà di se stessi
Per chi sostiene la completa proprietà della propria vita e del proprio corpo, sarà poi difficile non trovarsi ad affrontare dei paradossi come il caso di Alda Gross, la signora tedesca che da anni richiede, insistentemente, il suicidio assistito per sfuggire alla vecchiaia che avanza. Quanti sarebbero disposti ad ammettere che ha diritto ad accedere alla “dolce morte”? Ma, il principio della assoluta proprietà del proprio corpo e della propria vita può portare a delle situazioni ben più estreme. È il caso della vicenda legata a Armin Meiweis meglio noto come «il cannibale di Rotenburg».che nei primi anni 2000 insanguinò la Germania. Armin Meiweis , difendendosi nel processo a suo carico, raccontò di aver conosciuto una delle sue vittime su internet. Il cannibale di Rotenburg, infatti, aveva messo un annuncio online per cercare  persone “disposte a farsi macellare”. Il 43enne ingegnere berlinese Bernd-Juergen Brandes rispose all’annuncio acconsentendo di sua spontanea volontà a diventare il prossimo pasto del cannibale (http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2003/12_Dicembre/03/cannibale.shtml) Il caso appassionò l’opinione pubblica e prese in contropiede i giudici che comunque trovarono un escamotage per condannare il cannibale. Se le pratiche come il suicidio assistito non hanno più niente a che fare con l’alleviare le sofferenze dei malati terminali, ma si basano su principi libertari di proprietà della propria vita e del proprio corpo, allora ognuno può disporre di se stesso a proprio piacimento e vietare alle persone di sottoscrivere contratti di cannibalismo consensuale diventa ingiusto. La strada per trovare risposte soddisfacenti alle nuove domande etiche che vengono dalla società è ancora molto lunga, come dimostra il «paradosso del cannibale di Rotenburg».

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