Il passaggio alla Camera dell’Italicum, la nuova legge elettorale partorita dall’accordo fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, non è stato esattamente una passeggiata; tuttavia il patto fra i due leader ha retto alla prova dell’aula. Con 365 sì, 156 no e 40 astenuti la Camera dei Deputati ha approvato, mercoledì, la riforma della legge elettorale.

Il prezzo però è stata l’ennesima lacerazione interna al Pd con la minoranza che non si rassegna a rinunciare alle preferenze e i renziani che fanno i conti con lo scarso controllo sui gruppi parlamentari. Il momento più drammatico si è avuto nella giornata di lunedì 10 marzo quando, complice il voto a scrutinio segreto, la Camera ha bocciato i tre emendamenti bipartisan alla legge elettorale che introducevano le cosiddette “quote rosa”, ovvero la parità di genere nei listini elettorali. Nonostante la singolare protesta delle deputate donne, vestite integralmente di bianco al fine di rivendicare la parità di genere, per un pugno di voti gli emendamenti sono stati affossati dall’aula salvando il patto fra Renzi e Berlusconi e, probabilmente, lo stesso Governo. Al di là delle geografie interne al Pd , delle lotte intestine nei partiti e di tutti i motivi non proprio ideali che entrano in gioco ogni volta che si vota una legge, viene spontaneo chiedersi se l’introduzione di “quote rosa” nelle liste elettorali sia una battaglia giusta oppure no.

Discriminazione positiva
Nonostante la parità formale fra uomini e donne sia garantita per legge, dalla Costituzione, nel nostro Paese sono ancora molti gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere un’uguaglianza de facto con l’altro sesso: nel lavoro come in famiglia ci sono ancora molti ostacoli da rimuovere per raggiungere una vera equanimità. Un gap che, secondo il fronte trasversale delle deputate bianco vestite, l’introduzione delle quote rosa in Parlamento potrebbe contribuire a colmare garantendo maggiore rappresentanza femminile. Riservare un certo numero di posti nell’Assemblea legislativa per le donne, considerate, evidentemente, una categoria svantaggiata è, in termini tecnici, una discriminazione positiva ovvero si discriminano alcune categorie (in questo caso una sola: gli uomini), considerate più forti in partenza, per avvantaggiarne un’altra ritenuta, evidentemente, più debole. Ma è veramente così? Sono molte le donne a dichiararsi contrarie all’introduzione delle quote di genere in Parlamento: significherebbe infatti riconoscere un’intrinseca debolezza del gentil sesso nei confronti degli uomini, una debolezza tale da richiedere una speciale tutela da parte della Legge. In realtà le donne in Italia non sono affatto una minoranza:  come ha ammesso la stessa presidente della Camera Boldrini (anche se lei è d’accordo con le quote), le donne rappresentano il 50% della popolazione italiana, quindi tecnicamente non sono una minoranza. Né sono affette da una qualche forma di impedimento psicofisico che impedisce loro di competere ad armi pari, nell’agone politico, con i colleghi uomini. Il problema sta, semmai, nel fatto che i vertici dei partiti (che dovranno occuparsi di stilare le liste dei candidati) sono tutti, per ora, in mani maschili. Ma questo non è certo un problema a cui si può ovviare per legge.

Un Parlamento in rosa
Secondo la nostra Costituzione il diritto di partecipare alla vita delle istituzioni italiane appartiene a tutti i cittadini senza distinzione di sesso, religione, razza o provenienza geografica: tutti possono accedere alle cariche elettive. Dal punto di vista legislativo e formale non c’è nulla da cambiare e gli strumenti messi in campo dalla politica per raggiungere l’effettiva parità di genere dovrebbero essere di natura educativa più che legislativa. Ma si sa che l’educazione è un processo lungo e richiede una certa gradualità anche se, da questo punto di vista, alcuni risultati sono già stati raggiunti. Il nuovo Parlamento ha una presenza rilevante di donne, perfettamente in linea con la media Ue e superiore, in alcuni casi, ai Paesi più avanzati: in Gran Bretagna alla Camera dei Comuni ci sono 147 donne su 650 deputati (il 22% del totale), mentre alla Camera dei Lords si registrano 172 presenze femminili su 826 (il 20%). La situazione negli Stati Uniti d’America è ancora più sfavorevole al gentil sesso: 18% (82 donne su 435) di donne alla Camera e 20% (20 su 100) al Senato. In Italia la XVII legislatura registra il 31,4% di presenze femminili alla Camera (198 su 630) e il 27,3% al Senato (86 su 315). È vero che alcuni Paesi europei hanno introdotto le quote (Francia, Portogallo, Belgio, Spagna, Polonia, Lussemburgo, Grecia, Irlanda e Slovenia) tuttavia nei Paesi più avanzati, a cui spesso si dice che bisogna guardare per prendere esempio in campo economico e amministrativo (Danimarca, Svezia, Islanda, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito e Germania, Finlandia), non esiste nessuna quota di genere imposta per legge e sono gli stessi partiti ad imporsi, tramite un regolamento interno, di distribuire equamente i posti in lista: più o meno quello che Renzi ha promesso di fare nel Pd. Vedremo; nel frattempo bisogna chiedersi perché negli altri Paesi questi dibatti surreali non avvengono. Un esempio su tutti è costituito dagli U.S.A. dove si fa ampio uso della discriminazione positiva per tutelare le minoranze (soprattutto razziali) ad esempio nell’ammissione all’ università o anche per regolare la composizione etnico/culturale di alcuni quartieri delle città, ma dove nessuno si è mai sognato di introdurre quote rosa per il Senato. Il motivo di questa scelta è molto semplice : l’assemblea legislativa è aperta a tutti e una volta seduti lì non si può rappresentare solo una minoranza ma si deve rappresentare tutto il popolo.

Educare per decreto
Bisognerebbe chiedersi dunque a che punto di evoluzione culturale è giunta oggi la nostra società e perché, al netto dell’uguaglianza formale garantita dalla Costituzione, non si sente ancora abbastanza rappresentata dalle donne. Se si trattasse solo di imporre un certo numero di donne “per legge” sarebbe allora solo un’operazione di facciata e nessuno potrebbe più lamentarsi che le varie Minetti, Ruby
ecc. finiscano nelle liste elettorali o, addirittura, in Parlamento per meriti e competenze che con il governo del Paese hanno poco a che vedere. Certo creare le condizioni culturali, sociali ed economiche per far sì che una classe dirigente femminile capace e preparata emerga finalmente anche nel nostro Paese è molto più difficile che tentare di imporre la parità di genere per decreto. Come dimostra una lunga storia di leggi inapplicate, la tentazione di risolvere con lo strumento legislativo problemi complessi di altra natura è sempre in agguato in Italia: per evitare che gli italiani andassero con le prostitute, negli anni ’50, fu approvata la legge Merlin ma, come dimostra la cronaca di questi giorni (baby squillo ecc.) la situazione è nettamente peggiorata; per risolvere il problema dei manicomi si decise di abolirli negli anni ’70 ( legge Basaglia): ad oggi il problema delle malattie mentali e del loro trattamento è più acuto che mai; nel 1999 la legge 493ha obbligato le casalinghe ad assicurarsi: alzi la mano chi conosce una casalinga assicurata.
Di esempi di questo tipo se ne potrebbero fare a bizzeffe: a partire dalla pena di morte per la borsa nera durante l’ultima guerra, fino alla legge sull’omofobia che sembra più che altro una riscoperta del reato d’opinione : invece di prevedere un’aggravante per il reato di violenza commesso per motivi discriminatori, si istituisce il reato di omofobia come se si potesse punire per legge una paura (omo-fobia). Il dibattito sull’introduzione delle quote rosa è solo l’ultimo di questa lunga serie di tentativi di imporre, per legge, un costume, un’ abitudine, una forma mentis; l’ennesimo tentativo di educare il popolo attraverso la legge: si disinveste in cultura ed educazione e poi si cerca di rimediare ai danni attraverso le vie legislative. Ma i cambiamenti culturali non si possono imporre per legge, e le persone non si educano per decreto bensì a scuola, nelle università e nelle altre istituzioni preposte. Prima di lanciarsi in astrusi dibattiti su quote rosa e altre amenità, bisognerebbe prima mettesi d’accordo su qual è il fine ultimo, lo scopo (il télos direbbe qualcuno) della politica. Probabilmente le aule parlamentari dovrebbero servire per varare leggi che favoriscano condizioni sociali ed economiche tali da permettere l’emancipazione personale e collettiva di tutte le categorie sociali, soprattutto le più svantaggiate, e non per tentare una, in molti casi tardiva, rieducazione a suon di emendamenti.

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