La Commissione Tributaria Provinciale di Savona con la sentenza n° 389/2016 ha rigettato il ricorso di una prostituta che chiedeva l’annullamento dell’accertamento al quale era stata sottoposta, eccependo l’illegittimità della tassazione stante la mancata regolamentazione dell’attività svolta.
Tutti i mass-media hanno dato notizia della decisione rilevando che se il Parlamento non è in grado di regolamentare il fenomeno, tuttavia l’Amministrazione fiscale non ha la minima intenzione di soprassedere, nonostante l’assoluta inesistenza di norme in proposito, alle ingentissime entrate che deriveranno dalla tassazione delle attività connesse alla  prostituzione in Italia.
Ci sembra però opportuna una riflessione ulteriore. Vediamo perché.

Ad onor del vero della questione se ne era già occupata la Corte di Cassazione (Cass. n° 20528/10, Cass. n° 10578/11 ed Ordinanza del 24/07/2013), nonché la Corte di Giustizia Europea (20/11/01 proc.C268/99), tutte pronunce che avevano espressamente confermato come l’attività di prostituzione sia perfettamente equiparabile a qualsiasi altra attività economica e quindi, al di là della regolamentazione normativa, debba soggiacere alla disciplina fiscale dello Stato nel quale viene svolta.

L’ACCERTAMENTO E L’OPPOSIZIONE

La ragazza dell’Est Europeo della quale ci occupiamo, subiva una verifica fiscale condotta dalla Guardia di Finanza risultando esercitare “un’attività intesa al meretricio”.
L’Agenzia delle Entrate, a seguito della verifica suddetta e delle indagini   sui conti bancari e postali intestati alla ragazza, notificava un avviso di accertamento sulla base anche di un quaderno nel quale la giovane aveva annotato diligentemente gli “incontri lavorativi”, rilevando che la contribuente non aveva dichiarato compensi che, al minimo, si potevano computare per l’anno 2010, 2011 e 2012 in circa 40mil un totale di 120mila euro.
Venivano riconosciute lealmente alla ragazza in detrazione le spese sostenute per la pubblicità per procacciarsi i clienti, mentre sul reddito residuo veniva computata l’IRPEF, l’addizionale regionale IRPEF, l’addizionale comunale IRPEF, i contributi previdenziali, l’IVA sui ricavi lordi, eccetera.

LE CONTESTAZIONI DELLA GIOVANE

 La recalcitrante contribuente rilevava che si era iscritta alla Camera di Commercio di Savona come ditta esercente l’attività di servizi di pulizia, poi cessata, ma ammetteva di non aver mai esercitato tale attività praticando il “mestiere di escort extramoenia” incamerando un compenso costante negli anni così come accertato.
Si opponeva fermamente la ricorrente agli accertamenti suddetti, sollevando   una serie di eccezioni procedurali, ma soprattutto eccependo che la particolare attività di “assistenza ai clienti”, seppur non vietata, non  è regolamentata in Italia, talché doveva intendersi come  non tassabile.
Inoltre rilevava, contestando le osservazioni del legale dell’Amministrazione tributaria,  la disparità di trattamento tra la non imponibilità delle prestazioni rese nell’ambito domestico, rispetto all’imponibilità delle prestazioni rese al di fuori dell’abitazione e comunque che fosse erronea l’opinione dell’Ufficio fiscale di ritenere l’attività della ricorrente come  abituale, ossia professionale, dovendosi invece ritenere le prestazioni soltanto occasionali, senza alcun obbligo di sottostare all’imposizione l’IVA   ed IPERF.

LA DECISONE DELLA COMMISSIONE TRIBUTARIA

Il Giudice Tributario, respingendo le eccezioni procedurali, rilevava come fosse indubbio tramite gli accertamenti sui conti correnti bancari ed affini, che l’Amministrazione aveva pienamente  assolto all’onere probatorio (ex DPR. n° 600/73 art. 32), determinandosi così un inversione dell’onere della prova a carico della contribuente.
Questa avrebbe dovuto dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non erano riferibili ad operazioni imponibili relative all’attività prestata “di cortigiana”(sic).
Mancando tale prova ed anzi in presenza della prova anche scritta contraria, sempre secondo i giudici tributari l’attività era sicuramente assoggettabile anche all’IVA.
La prostituzione, rilevava ancora la Commissione tributaria, quando sia autonomamente svolta dal prestatore con carattere di abitualità, seppure contraria al buon costume e cioè  alle norme etiche che rifiutano il commercio per denaro del proprio corpo, non costituendo reato, va inquadrata nell’ampia previsione contenuta nel  DPR n° 633/72 art. 3 comma 1 e conseguentemente è assoggettabile sia al pagamento dell’IRPEF che al pagamento dell’IVA.
Concludeva infine la Commissione con un richiamo storico all’Imperatore Vespasiano il quale per risanare le impoverite finanze dell’impero istituì una tassa (centesima venalium) sulla raccolta dell’urina necessaria alle tintorie ed alle conce delle pelli.
Allorché il figlio Tito lo rimproverava di ricavare proventi da un siffatto genere immondo di commercio, l’Imperatore rispose con il famoso detto “pecunia non olet”.
Dopo il richiamo storico la Commissione rigettando il ricorso, condannava la giovane donna anche alle spese legali in favore dell’amministrazione fiscale, quantificate in duemila euro.

UN EVASIONE FISCALE DA CAPOGIRO

Senza entrare nel merito della regolamentazione del fenomeno della prostituzione e delle differenti scelte operate in Europa (si va dalla legalizzazione e regolamentazione come in Germania all’atteggiamento proibizionista dei Paesi Scandinavi) resta il fatto che si tratta di un’attività con fatturati da capogiro per cifre rilevantissime.
Già della questione GOLEM se ne era occupato il 7 marzo 2014   e il 27 gennaio 2015  con articoli che appunto facevano riferimento alle sentenza della Cassazione e alle proposte legislative pendenti in Parlamento.
Se tuttavia esaminiamo il fenomeno, al di là delle valutazioni etiche, solo sotto il profilo economico, rileviamo che parliamo di cifre da far invidia alle multinazionali.
Solo per parlare dell’Italia, il fenomeno prostituzione, (secondo i dati della Comunità Papa Giovanni XXIII bisogna far riferimento a circa 120.000 donne, delle quali il 65% si prostituisce in strada, il 35% in appartamenti, locali e case private con prevalenza quasi totale di straniere, cifre alle quali va aggiunta la prostituzione maschile e dei trans.
Secondo studi e valutazioni recenti, ipotizzando in minus sette rapporti giornalieri per circa 40 euro per ciascun rapporto (ed ovviamente si fa riferimento alla fascia più bassa), per 20 giorni lavorativi avremo un reddito per prostituta di circa 5mila e 600 euro al mese (non dissimile da quello dichiarato, ovviamente in modo riduttivo, dalla giovane ragazza coinvolta nel processo tributario).
Dunque un reddito effettivo annuo di 67mila e 200 euro per ciascun soggetto.
Calcolando, approssimativamente, solo per l’Irpef, una tassazione a forfait del 38% inferiore a quella effettivamente rapportata al reddito, ne deriverà per le casse dello Stato un introito fiscale di 25mila 536 euro per ogni prostituta.
Moltiplicando tale cifra per il numero delle prostitute, avremo un incasso per l’amministrazione fiscale di oltre 3 miliardi di euro all’anno.
Ci sembra che a questo punto la polizia tributaria abbia ben altri bersagli rispetto alla drogheria o al ristorante sotto casa.

SCANDALO E MORALITA’

La singolarità della fattispecie  non deve però far sfuggire una osservazione sulla sentenza che ci interessa tutti.
Infatti, esaminando la decisione della Commissione Tributaria di Savona, il vero scandalo non sta tanto nell’attività svolta dalla ragazza dell’est europeo, quanto nelle cifre  riconosciute in favore dello Stato.
Determinati i compensi annui in 40mila 532 euro e detratte le spese sostenute per la pubblicità (3mila 680 euro all’anno) secondo gli accertamenti la ragazza avrebbe guadagnato nel 2011 36mila 852 euro.
Bene: su tale cifra, la Commissione Tributaria ha condannato la giovane a versare, 9.925 euro per IRPEF accertata, 638 euro per l’addizionale regionale IRPEF, 221 euro per l’addizionale comunale IRPEF, 9.847 euro per contributi previdenziali, 5.752,21 euro per IVA al 20% e 2.471,90 per IVA al 21% e così complessivamente la povera ragazza dovrà versare 28mila 828,11 euro sui 36.852 realmente incassati. Ciò significa che dal lavoro di un anno intero le restano soltanto 8mila euro, ossia 650 euro al mese…

Ci chiediamo se l’immoralità sia ravvisabile nel comportamento della ragazza o nelle abnormi pretese dello Stato Italiano!

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