La musica contemporanea vive da decenni all’interno di spazi circoscritti, quasi delle aree protette. Sono i festival, le grandi e piccole rassegne che sono nate (e che periodicamente muoiono) in ogni angolo della vecchia Europa, ma che da tempo stanno proliferando anche in altri continenti, soprattutto nelle Americhe e in Estremo Oriente. Sono come ecosistemi dove la produzione, il consumo, la critica si muovono in un circuito chiuso, seguendo la filiera del compositore – interprete – ascoltatore.

Ma quando questo circuito è alimentato in maniera almeno costante, se non cospicua, quando rispetta la divisione dei ruoli al suo interno, quando si preoccupa di radicarsi nel tessuto culturale dove esso nasce – senza cioè diventare una turris eburnea –, esso ha sempre costituito un motore di sviluppo fondamentale per le idee musicali e per la loro circolazione. E la storia è ormai lì a dimostrarlo. Uno degli ultimi festival di musica contemporanea nati in Italia è Play it! (da poco insignito del premio Abbiati), creato a Firenze in seno all’Orchestra della Toscana (ORT). L’idea chiave è stata quella di dare spazio e visibilità ai compositori italiani, non solo giovani, che – come molti scienziati e ricercatori – hanno spesso successo all’estero, dove ottengono commissioni e riconoscimenti ufficiali, ma pochissimo in patria. «Il festival Play It! è il frutto di una scelta perseguita con tenacia – dice Giorgio Battistelli, direttore artistico del festival -. Scommettere sulla musica contemporanea italiana in un momento in cui la musica d’arte è messa all’angolo, vittima di gravi amputazioni economiche, sempre più assente sotto i riflettori ma anche sulle pagine dei giornali, perché conta troppo poco, non fa notizia. Play It! esprime nella sua esclamazione la risposta della Fondazione ORT a tutto questo: insieme dobbiamo far crescere la nostra musica […] Play It! prova con estrema naturalezza quanto le idee più diverse si arricchiscano nella concomitanza. Quanto sia prezioso conoscersi, frequentarsi. Tanti cerchi di suoni, tanti differenti passi di danza che troveranno un centro di festa».

Dieci prime assolute
Nella rassegna, giunta alla sua terza edizione, l’ORT si è esibita in quattro concerti (diretti da Fabio Maestri, Carlo Lizzari, Tonino Battista e Francesco Lanzillotta), presentando al pubblico venti brani, dei quali dieci erano prime assolute (commissionate proprio dall’ORT), gli altri in prima esecuzione italiana. Roba fresca, insomma. Tra le novità ha colpito molto per l’intensità espressiva il lavoro di Daniela Terranova, intitolato Stasis in Darkness. Then the Blue, e ispirato al mondo interiore e visionario di Sylvia Plath, la poetessa americana morta suicida a soli trent’anni (il titolo è tratto dai primi versi della poesia Ariel). Una musica che descriveva bene il sentimento dell’inquietudine interiore, attraverso fasce armoniche apparentemente statiche, ma internamente piene di sfumature, di turbolenze, cariche di tensione, capaci di evocare un respiro umano, ma soffocato, lacerato da squarci improvvisi, brevi bagliori lirici, come un anelito verso la luce. Di segno opposto, per la sua esuberanza, il virtuosismo, la fisicità, era invece Trama di Luca Francesconi, pezzo “storico” per sassofono e orchestra, scritto nel 1987 (ma mai prima eseguito in Italia), concepito come un flusso inarrestabile di suoni, lussureggiante, fatto di disegni avvolgenti e sempre movimentati che si raddensavano intorno alla parte virtuosistica del solita (Mario Marzi). Molte le composizioni vocali presentate a Play it!, e affidate a una specialista come Alda Caiello, che si è dimostrata anche molto duttile nell’affrontare stili radicalmente diversi. The Waters Flow On their Way di Fabio Nieder, era un pezzo «per orchestra e voce femminile piangente», composto su testi tradizionali armeni e azeri, con un’impostazione quasi liederistica, dove il tessuto strumentale, armonicamente ricco, ma senza suoni gravi, e dall’eloquio dolente, nasceva come «un’emanazione» del pianto di una donna, e progressivamente si scarnificava, punteggiato dalle risonanze dei gong thailandesi. Una chiara impronta liederistica aveva anche il nuovo lavoro di Paolo Marchettini, The Months Have Ends, basato su cinque poesie di Emily Dickinson, caratterizzato da una scrittura molto tradizionale, quasi mahleriana, che dimostrava tuttavia la grande abilità orchestrale del quarantenne compositore romano. Dalle Rimas dello scrittore spagnolo Gustavo Adolf Bécquer prendeva spunto Próxima di Daniele Ghisi, bella partitura giocata sulla percezione della vicinanza e della distanza, sulle risonanze fonetiche del testo (ottenute isolando alcuni fonemi chiave), su una vocalità frammentata, immersa in un pulviscolo strumentale, pieno di frizioni e dissonanze, ma molto sensuale.

Dramma istantaneo
Esperimento estremo, concettuale, ma più burlesco che provocatorio, è stato il «minimodramma» Taci di Girolamo Deraco, concepito come un’opera (per voce e orchestra) compressa all’estremo, in solo otto secondi. Tra i lavori presentati al festival, alcuni traevano ispirazione del mondo dell’arte o da aspetti legati alla percezione visiva. Nel nuovo pezzo di Federico Gardella, Ossessioni di Pontormo, i minuziosi appunti di Jacopo Carrucci, presi sul diario al fianco degli studi delle sue opere più celebri, suggerivano una partitura dal materiale rarefatto, innervata da sorde pulsazioni e fremiti nevosi; Travelling Icon On Rabbit-Skin Glue (Icona da viaggio su colla di coniglio) di Giovanni Verrando prendeva spunto dalle icone da viaggio delle tradizione russa, immagini dai colori vivaci, racchiuse tra due valve, che offrivano ai credenti la possibilità di un contatto costante con i propri protettori spirituali; nel bel lavoro per orchestra di Carmine Emanuele Cella, intitolato The Manhattan Distance, era invece la geometria, come possibilità di osservare la realtà da prospettive diverse, a suggerire un percorso sonoro molto eloquente, fatto di trame movimentate e sature, pieno di emergenze solistiche e fitti dialoghi strumentali. Tra i pezzi per ensemble sono state presentate le prime italiane di Finito ogni gesto di Francesco Filidei, ispirato a un verso di Novissimum Testamentum di Edoardo Sanguineti, Allegro con bocca di Emanuele Casale, pezzo per ensemble e elettronica dal gusto ludico e dadaista, tipico del compositore catanese, Dal deserto di Gilberto Bosco, brano per otto esecutori del 2003, che si è aggiudicato il premio dell’ORT come miglio pezzo per ensemble. Il premio dell’ORT per la migliore composizione orchestrale è andato invece a Marco Lena, quarantenne compositore cremonese, per In The Dark, partitura rimtica, di impianto minimal, orchestrata con grande finezza, concepita come uno studio sull’ultima scena della sua opera Othellosexmachine, che è a sua volta una riscrittura dell’Otello di Shakespeare realizzata insieme allo scrittore Cristian Ceresoli. Un riferimento shakespeariano, alla figura di Ophelia e alla sua grande interprete Sarah Bernhardt, era alla base anche di …Her Death! (ritratto di Sarah) di Azio Corghi, che a Play it! ha ricevuto (dopo Sylvano Bussotti e Giacomo Manzoni) il premio alla carriera.

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