Il 26 agosto di quest’anno si è celebrato il centenario della nascita di Ingrid Bergman, e in Svezia non sono mancate le celebrazioni, tra le quali un’interessante mostra allo Strandverket Museum. Anche l’Opera di Göteborg ha voluto celebrare la grande attrice svedese, commissionando a Hans Gefors un’opera tratta da uno dei suoi film più celebri, Notorius.

Composta su un libretto di Kerstin Perski, che ricalcava fedelmente la sceneggiatura di Hitchcock, solo con alcuni piccoli adattamenti (ad esempio ha sostituito la scena alle corse dei cavalli con una serata all’opera, seguendo un’idea che originariamente fu proprio di Hitchcock), e che focalizzava l’attenzione sul tema, classico e collaudato, del conflitto tra amore e dovere, l’opera è stata accolta con grandissimo successo. Il sessantatreenne compositore è del resto un abile operista, molto noto ed amato in Svezia, già dalla sua opera Christina, del 1986, sulla regina di Svezia – ha poi consolidato la sua fama con Der Park (Wiesbaden 1992), Cry Wolf (Malmö 1997), Clara (Parigi 1998), su libretto di Jean-Claude Carrière – e ha scritto Notorius per una star della lirica svedese come Nina Stemme (per la quale aveva già composto un ciclo vocale nel 2002), con una parte vocale assai impegnativa che la teneva in scena per 20 delle 22 scene dell’opera (suddivise in cinque atti): «Per me Notorius non è solo un thriller, uno spymovie, ma una vera storia d’amore, sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale. La suspense deriva dalla tensione tra i quattro protagonisti e dal graduale annullamento della volontà di Alicia. Vedo la mia opera come un tributo al potere della voce cantata sul cuore e sull’anima. Non potrei avere chiesto di meglio di Nina Stemme per il ruolo di Alicia». E La Stemme non ha deluso: ha sfoggiato una grande voce, capace di affrontare senza sforzo il difficile ruolo, con grande carattere, bravissima a mostrare le emozioni, i sentimenti improvvisi, il terrore, la disperazione della protagonista, come in una prova cinematografica. Svedesi (ed esperti wagneriani) anche gli altri protagonisti dell’opera l’ottimo John Lundgren, baritono drammatico nella parte di Devlin (che fu di Cary Grant); l’Heldentenor Michael Weinius (Alex Sebastian) che sfoggiava una voce molto compatta, piena di sfoghi lirici, molto espressiva nella sua lunga aria del quarto atto (quando scopriva, con disperazione, il tradimento di Alicia) e nel drammatico duetto con la madre; il mezzosoprano Katarina Karnéus, che affrontava con bravura e grande carattere l’impervia parte di coloratura di madame Sebastian, sottolineandone la figura castratrice, dominante sul figlio. Alcuni momenti di questa storia nata da un film e trasformata in un’opera apparivano come dei topoi operistici: ad esempio la scena di Devlin ostacolato dal coro, quando entrava nella villa di Sebastian per vedere Alicia malata, ricordava Rigoletto fermato dai cortigiani; o ancora l’immagine della donna agonizzante su un letto e dell’uomo disperato che la ama, non poteva non richiamare Traviata o Bohème. La sontuosa scrittura orchestrale richiamava Mahler e Ravel, con qualche eco wagneriana e punteggiature brasiliane, che emergevano nei temi delle trombe con sordina, nei ritmi di maracas, nella danza stilizzata, quasi ritualizzata e au ralenti, nella scena del party in casa dei Sebastian. Gefors ha voluto anche inserire alcune «risonanze mitiche» nell’opera, citando la danza delle Furie dall’Orfeo ed Euridice di Gluck nella scena della serata all’opera: furie come figure simboliche della morte, che trovavano una loro incarnazione in Madame Sebastian, figura inquietante e castratrice, con dei tic motori e fonatori, che alla fine, come una Baccante, sacrificava la vita del figlio per la causa nazista. Era una musica ricca di invenzioni, di scatti improvvisi, di spunti tematici dal carattere gestuale, di momenti lirici e sensuali, di sontuose scene corali, ma anche di effetti come fischi, soffi (dei fiati) e glissati, sempre strettamente legati all’azione sulla scena e usati per sottolineare i momenti di suspense. Caratteri restituiti con energia e forza drammatica da Patrik Ringborg, sul podio dell’Orchestra dell’Opera di Goteborg. La regia di Keith Warner e le scene di David Fiedlin giocavano sulla metafora e del cinema, sin dai primissimi istanti, quando Alicia entrava in scena, con le luci in sala ancora accese, e caricava una pellicola su un vecchio proiettore. Anche la scena del viaggio in auto era resa con la proiezione della strada sullo schermo dietro la macchina, come nei vecchi film. Il video giocava un ruolo fondamentale in vari momenti dell’opera: negli interni bianchi, eleganti, arredati con pochissimi oggetti, erano le proiezioni (di scale, finestre, porte) a riprodurre gli originali ambienti hitchcockiani; grandi panorami di Miami e di Rio venivano proiettati, insieme al volo di un aereo, per descrivere (anche in modo un po’ troppo didascalico) il trasferimento dell’azione in Brasile, dove Alicia e Devlin andavano per scoprire i segreti degli scienziati nazisti che stavano lavorando alla bomba atomica; i volti giganteschi di Alex e di sua madre proiettati sul fondale accoglievano l’arrivo di Alicia con sguardi inquietanti; nella scena del party la chiave veniva mostrata, con dettagli ingranditi, in un filmato in bianco e nero; nell’ultimo atto gli incubi di Alicia, prodotti dal veleno somministratole, prendevano forma di immagini deformi, sproporzionate, come un gioco di vertigini, mentre il suo letto ruotava vorticosamente e poi si innalzava su una pedana, come fosse un altare. C’erano in questo spettacolo anche delle immagini cruente e surreali, assenti nel film: la scena in cui il cospiratore Emil Hupka (interpretato da Jonas Olofsson) si tradiva, era trasformata in un tremendo e grottesco rito sacrificale, con figure diaboliche e grandi sagome di forchette e coltelli che facevano a pezzi il povero Emil; quando Alicia e Devlin scendevano in cantina (scena realizzata innalzando il palcoscenico col party) trovavano il cadavere dello stesso Hupka in una cella frigorifera. Era poi costante, anche esagerata, la presenza di Alfred Hitchcock, che incombeva ovunque, come un cameo moltiplicato all’infinito: appariva in scena come un mimo muto, come maggiordomo, come regista per dare istruzioni ai personaggi, o ancora come una sagoma di legno ingigantita, o proiettato sullo schermo con la sua celebre profilo panciuto.

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