In tre tornate elettorali la Nigeria elegge un nuovo parlamento, il presidente della Repubblica e i governatori del 36 stati che la compongono e spera in un nuovo corso più democratico. Il Paese più popoloso dell’Africa e tra i più ricchi al mondo di fonti energetiche annaspa tra la corruzione, l’inquinamento, la mortalità infantile, le lotte di religione e fra etnie.

Corrotti e corruttori. Da oltre sessant’anni le maggiori società petrolifere estraggono greggio nigeriano che si presenta di buona qualità e in quantità tali da far registrare a fine 2010 una produzione nazionale di 2,6 milioni di barili al giorno. Il petrolio rappresenta il 90-95% dell’export in valore, l’80% delle entrate statali, il 90% delle riserve in valuta estera. Un affare colossale gestito da pochi gruppi industriali internazionali e da una ristretta élite di governanti locali che non ha investito in una crescita sociale ma ha lasciato che il patrimonio ambientale venisse irrimediabilmente inquinato impoverendo così ulteriormente i nigeriani che non possono più vivere di pesca, allevamento e agricoltura e al tempo stesso non trovano impiego presso le raffinerie. Il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, mentre sostanziosi conti correnti bancari vengono aperti in Svizzera e non solo in Europa. Da ex colonia britannica divenuta indipendente nel 1960, la Nigeria ha vissuto una guerra civile, quella del Biafra con un milione di morti per stenti, e fino al 1999 ha visto avvicendarsi solo giunte militari. Negli ultimi dodici anni si è votato tre volte, in un crescente deterioramento del diritto di voto e di sovranità popolare: le penultime elezioni del 2007 sono state per gli osservatori internazionali “le peggiori al mondo per brogli, violenze e inganni”, con i votanti rispediti a casa e sostituiti da funzionari di partiti trasformati in compilatori di schede. Quelle in corso hanno segnato un cambio di rotta. Entrare a far parte dell’Assemblea nazionale con i suoi 360 membri della Camera dei rappresentanti e 109 senatori, significa assicurarsi più di un milione di dollari tra stipendio e benefit all’anno e il potere di decidere come utilizzare i miliardi di dollari dei profitti del petrolio.
La corruzione è sempre stata molto diffusa. Il 15 aprile, per esempio, la polizia britannica annuncia che l’ex governatore dello Stato nigeriano Delta, James Ibori, è stato arrestato a Londra dopo essere stato estradato dagli Emirati Arabi dove era detenuto per riciclaggio di denaro e per frode. Un portavoce della commissione nigeriana per i crimini economici e finanziari, Femi Babafemi, spiega che Ibori è stato estradato per aver trasferito denaro rubato allo Stato in banche britanniche. Complessivamente l’ex governatore fuggito dalla Nigeria avrebbe sottratto 292 milioni di dollari di fondi pubblici. E ancora. Secondo un documento diplomatico statunitense pubblicato da WikiLeaks sono i politici e i militari i responsabili dei furti di greggio nella regione meridionale del Delta. Il cablo del gennaio 2009 riporta la conversazione di un diplomatico americano con Tony Uranta, membro del gruppo allora nominato dal governo per indagare sui furti e combatterli. Nel documento si legge che i militanti politici – come i guerriglieri del Mend che si battono con azioni dimostrative per destinare alla popolazione i proventi del greggio – sono responsabili del 15% dei furti, mentre ai politici e ai militari è attribuibile il rimanente 85%.
Ai corrotti si aggiungono i corruttori. Gli interessi ruotano intorno alle fonti energetiche: concessioni, protezioni paramilitari per evitare intoppi o furti, accondiscendenza da parte delle autorità capaci di non vigilare e di dimenticare di applicare pesanti sanzioni difronte a palesi violazioni come la mancata manutenzione degli oltre diecimila chilometri di obsolete pipeline che percorrono la sola fascia costiera nigeriana imbevendola di petrolio oppure acconsentendo al fenomeno del gas flaring, un procedimento per bruciare illegalmente i gas naturali derivati dalla lavorazione del greggio, ritenuto dal protocollo di Kyoto una delle principali cause dei gas serra che provocano il riscaldamento globale del pianeta. Senza considerare che gli abitanti del Delta del Niger si ritrovano in balia di piogge acide, soffrono di malattie respiratorie e vivono costantemente illuminati a giorno.
Pagare mazzette è conveniente per chi intende aggirare le leggi e garantirsi appalti lucrosi, ma resta un reato punibile talvolta anche nei Paesi d’origine. È quanto si è verificato nei giorni scorsi in Italia con l’inchiesta coordinata dai pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro che avrebbero accertato un giro di tangenti da parte di cinque manager della Sanmprogetti e la Saipem, società del gruppo Eni. L’accusa è di corruzione internazionale.
Il consorzio Tskj, di cui faceva parte Snamprogetti Netherlands BV con una quota del 25% (società controllata da Eni, confluita in Saipem nel 2006), si sarebbe assicurato l’appoggio di alcuni politici nigeriani tra il 1994 e il 2004  in cambio di appalti per la costruzione di sei impianti di trasporto e stoccaggio di gas liquefatto a Bonny Island, nel Sud del Paese. Secondo i magistrati la società avrebbe conseguito profitti illeciti per una somma non inferiore a 65 milioni di euro. Dopo l’udienza di smistamento del 5 aprile, gli imputati torneranno dinanzi alla corte della quarta sezione penale del Tribunale milanese il 10 maggio. Prima del processo, la società del gruppo Eni ha messo a disposizione della Procura di Milano 24 milioni di euro depositandoli presso la filiale della Bnl del Palazzo di Giustizia. La somma potrebbe essere confiscata in caso di condanna della Saipem, imputata in base alla legge 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti. I pm, dopo l’invio del bonifico, hanno rinunciato al ricorso al Tribunale del Riesame che avrebbe dovuto discutere, per la seconda volta, le misure interdittive per la Saipem.
Le elezioni nigeriane posso determinare un significativo cambiamento nella politica delle risorse energetiche nazionali influenzando così direttamente il mercato internazionale. Lo prospetta Goodluck Jonathan, il neo eletto presidente della Repubblica che intende far passare entro maggio una legge per ristrutturare l’industria del petrolio. Secondo Jonathan il provvedimento faciliterebbe gli investimenti stranieri, ma per gli analisti verrebbero ridotti nettamente i profitti delle aziende petrolifere estere che ritornerebbero nelle mani dei cittadini nigeriani. Le multinazionali non stanno a guardare. Già prima delle elezioni le società petrolifere si sono impegnate a rendere noto i loro contributi al Paese: colossi come Royal Dutch Shell e Chevron sostengono di aver speso milioni di dollari in progetti che secondo loro migliorerebbero la vita dei cittadini del Delta della Niger. Le società pubblicizzano miglioramenti, ma le comunità le accusano di aver creato danni ambientali a lungo termine in una regione che ha sofferto per oltre mezzo secolo di sfruttamento. Alla propaganda è seguita l’azione con un consorzio di aziende che si sono assicurate, pochi giorni prima delle votazioni, una commessa miliardaria per lo sfruttamento dei gas. Operazione questa che andrà a ridurre drasticamente il fenomeno del gas flaring a cui avrebbero dovuto ovviare le stesse multinazionali impegnate nell’estrazione del greggio che da oltre trent’anni violano una legge nazionale. L’Eni ha ottenuto, in consorzio con Oando, un contratto da due miliardi di dollari per la realizzazione di un impianto per la lavorazione di gas condensati a Obiafu, nello stato di Rivers.
Il gruppo petrolifero italiano opererà sui gas dei campi gestiti da Chevron e Royal Dutch Shell, per rifornire impianti petrolchimici o di produzione di fertilizzanti che verranno costruiti negli Stati di Delta e Lagos. Il contratto rientra nella strategia energetica del paese nigeriano, che “si sta riposizionando per diventare un hub regionale per le industrie basate sul gas”, ha spiegato il ministro uscente del petrolio Diezani Alison-Madueke. La Nigeria intende infatti sviluppare le proprie riserve di gas e costruire infrastrutture per il trasporto verso centrali elettriche e per l’esportazione. In particolare, il Paese intende investire 30 miliardi di dollari in gasdotti per portare la materia prima in Europa attraverso il deserto del Sahara.
Trascorrono poche settimane e, in piena tornata elettorale, la divisione nigeriana della Shell sigla un contratto da 101 milioni di dollari con Saipem Contracting Nigeria (gruppo Eni). Il gasdotto da 42 chilometri avrà una capacità di circa 30 milioni di metri cubi al giorno dai campi di Otumara e Saghara nella parte occidentale del Delta del Niger e immetterà il gas nel sistema Escravos-Lagos.
In attesa della riforma prospettata dal neo presidente, la Saipem ha reso noto i bilanci: nel primo trimestre 2011 i ricavi ammontano a 2.954 milioni di euro (+ 11,9% rispetto al primo trimestre 2010), l’utile operativo è pari a 347 milioni di euro (+17,2%), mentre l’utile netto ammonta a 213 milioni di euro (+ 17%). (1. Continua)

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In allegato, il primo capitolo di Africa bomber (Add editore) in cui Kalas Ngeri, un giovane calciatore nigeriano, cristiano, attivista politico non violento del Massob, racconta in una lunga intervista rilasciata a Goffredo De Pascale la sua fuga nel 2007 per evitare l’arresto per reati non commessi e il suo arrivo in Italia dove gli è stato riconosciuto lo status di rifugiato politico e ha potuto riprendere a giocare a calcio.

Africa bomber

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