Les Troyens di Hector Berlioz è andato in scena alla Scala con grande successo, di critica e di pubblico. Lo spettacolo firmato da David McVicar, già presentato al Covent Garden nel 2012 e coprodotto con la San Francisco Opera e Wiener Staatsoper ha colpito per la visionarietà della regia, la prova straordinaria delle due protagoniste femminili, Anna Caterina Antonacci e Daniela Barcellona, e per la trascinante e musicalissima direzione di Antonio Pappano, che è stato anche reclamato gran voce dal pubblico come futuro direttore del teatro scaligero.

Difficile mettere in scena questa opera-fiume, un grand-opéra in cinque atti che richiede mezzi scenici, corali e orchestrali imponenti. McVicar lo ha fatto disegnando grandi tableaux, di immediato impatto visivo, e puntando sui movimenti delle masse, oltre che sulle coreografie di Lynne Page (talvolta esagerate e superflue, per il continuo agitarsi di soldati, maschere, bambini, o dei ballerini che mimavano arcieri, cani e cerbiatte nella pantomima dell’interludio del quarto atto «Caccia reale e tempesta»). Ha ambientato l’opera non nell’antichità, ma ai tempi della sua composizione, cioè negli anni 50 del XIX secolo, all’epoca di Napoleone III, con alcuni riferimenti simbolici, e qualche allusione alle ambizioni coloniali e moderniste dell’impero francese, sfruttando i grandi apparati scenici di Es Devlin, e gli accurati costumi di Moritz Junge. Sui primi due atti, ambientati a Troia, incombevano le grandi mura fatte di detriti metallici, e un cavallo costruito di pezzi di metallo, cannoni, ruote e ferraglie varie. Nel terzo atto, ambientato a Cartagine, la reggia di Didone appariva come un grande anfiteatro in terracotta, di color ocra, con un plastico della città al centro, che poi veniva sospeso e capovolto, per sottolineare la piega drammatica degli eventi e le minacce per il futuro della città. Nell’ultimo atto lo stesso ammasso di ferraglia, con cui era costruito il cavallo, si trasforma in una specie di grande robot, un Golem informe che profetizzava la vendetta di Annibale. Un contributo fondamentale alla riuscita dello spettacolo è stata la prova non solo vocale, ma attoriale delle due prime donne. La Cassandre di Anna Caterina Antonacci appariva profondamente calata nel suo personaggio, e riempiva la scena con la sua gestualità straniata, geometrica, ma molto fisica e atletica, da vero animale da palcoscenico. Per non parlare del perfetto controllo dei suoi mezzi vocali, e la sua capacità di dare peso drammatico ad ogni parola ed ogni frase melodica. Sontuosa anche la Didon di Daniela Barcellona, dalla voce solida e avvolgente, che ha saputo mostrare accenti appassionati e insieme il profondo dolore della regina nell’ultimo atto. Ottimo però anche il resto del cast, a partire da Gregory Kunde, un Enée dalla voce squillante che ha saputo destreggiarsi piuttosto bene nell’autentico tour de force della sua parte vocale, sia in termini di resistenza fisica che di duttilità espressiva. Per la prima volta sul podio della Scala, Antonio Pappano ha offerto una lettura serrata, carica di energia in ogni scena dell’opera («Les Troyens non è un’opera normale: ha bisogno di energia totale, di convergenza di volontà artistiche e audacia economica […] è un’opera di “superbelcanto” cui occorre un motore orchestrale speciale. La drammaturgia musicale sotterranea non poggia su abbandoni melodici ma ha una frammentazione eccitante, armonie e timbri imprevedibili, e passo teatrale da grand-opéra»), anche dove l’azione era più statica, anche quando staccava tempi lenti per sottolineare i momenti sentimentali, una lettura trasparente che dava risalto alle pagine corali, e trovava sempre un perfetto equilibrio tra buca e palcoscenico.

Pappano ha dimostrato la sua sintona con la musica di Berlioz anche in un concerto sinfonico che faceva parte della stagione concertistica scaligera. Sul podio della Filarmonica della Scala ha diretto la Symphonie fantastique con profusione di colori e con un profondo senso teatrale, che trasformava ogni movimento in una vera e propria scena operistica. Nello stesso programma c’erano anche Ma mère l’oye di Ravel e un nuovo pezzo di Riccardo Panifli, intitolato L’Aurora, probabilmente, che era la seconda commissione per orchestra fatta dal Teatro alla Scala in questa stagione (escludendo i pezzi contemporanei programmati nel ciclo dedicato a Strauss, e nel progetto Pollini). Si trattava si un lavoro di grande forza comunicativa, disarmante nella semplicità della retorica musicale messa in gioco, ma proprio per questo ben abbinato al carattere programmatico delle altre due partiture eseguite nello stesso concerto. Nato a Terni nel 1979, allievo di Ivan Vandor, Vieri Tosatti, Azio Corghi, assistente di Hans Werner Henze, Panfili ha scritto questa partitura ispirato dalla giovanile lettura di un testo di Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali («L’Aurora è sempre probabile e impossibile al contempo; speranza e fallimento, liberazione e violenza. Nei sogni secolari di una vita migliore l’umanità immagina incessantemente l’alba di un tempo nuovo: ogni uomo, da sempre, si ritaglia un piccolo raggio di speranza. È la luce fioca dell’Aurora. Probabilmente»). E ne è venuto un lavoro eloquente, narrativo, molto sviluppato, che ha dimostrato una grande padronanza della scrittura orchestrale, e un’indubbia capacità di miscelare stili diversi, echi mahleriani, materiali jazz, momenti magniloquenti e un po’ cinematografici, episodi leggeri e cameristici, squarci lirici, scene spettrali e misteriose, momenti danzanti, sezioni ritmiche e martellanti, in una varietà di situazioni musicali sempre ben colta dalla bacchetta di Pappano (che di Panfili aveva già diretto Danzario, vincitore nel 2006 del Primo premio del Concorso Internazionale di Composizione Santa Cecilia di Roma). L’altra novità assoluta era stata presentata in un concerto della Filarmonica, diretta dalla finlandese Susanna Mälkki, che insieme alle Quattro versioni originali della Ritirata notturna di Madrid di Luigi Boccherini (trascritte da Luciano Berio) e al Concerto per orchestra di Béla Bartók, aveva eseguito Heur, Leurre, Lueur per violoncello e orchestra di Stefano Gervasoni, con la parte solistica affidata all’ottimo Francesco Dillon. Non proprio un concerto, ma un forma musicale ambigua, come suggerivano le tre parole del titolo, legate a un’idea di mobilità, fluidità, trascoloramento (Heur è l’augurio indefinito che può essere di “bonheur” o di “malheur”; Lueur è il lucore, una luce tenue e diffusa che inganna; Leurre è l’esca artificiale, l’illusione). Il tradizionale rapporto tra solista e orchestra ne risultava addirittura ribaltato: «L’orchestra diventa il solista esploratore, il violoncello solista il filo che l’orchestra segue e traduce in visioni ampie e solidamente-illusoriamente concrete, inglobandolo (il violoncello) al suo interno. Per questo motivo il mio lavoro non è un concerto per violoncello e orchestra. I ruoli di entrambi non sono così nettamente e dialetticamente definiti; e la ripartizione in sezioni o movimenti dominati da tali rapporti – in questo caso resi “deboli” – non è così chiaramente tracciabile»). Il risultato era un pezzo piuttosto disarticolato, quasi rapsodico, privo di uno sviluppo organico, con una scrittura timbrica molto ricercata, ma più tradizionale rispetto allo stile corrosivo del compositore bergamasco, punteggiato da improvvise incursioni delle percussioni, dalle masse degli archi, dai suoni legnosi dell’orchestra.

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