«Chi non beve con me, peste lo colga!». Era la celebre battuta di Amedeo Nazzari nel film La Cena delle Beffe di Alessandro Blasetti. Girato nel 1942, tratto dall’omonimo dramma in versi di Sem Benelli (1909), è stato uno dei primi film con Valentina Cortese, ed è divenuto famoso anche per la scena del seno nudo di Clara Calamai, che scatenò l’anatema della Chiesa. Ma nel 1924 La Cena delle Beffe aveva fatto parlare di sé nella sua versione operistica, scritta da Umberto Giordano su libretto dello stesso Benelli, diretta alla Scala nientemeno che da Arturo Toscanini, e con la regia di Giovacchino Forzano.

Novantadue anni dopo, quest’opera è tornata alla Scala, in un nuovo spettacolo firmato da Mario Martone. La storia di scontri tra bande rivali, ambientata nella Firenze medicea (il prepotente Neri Chiaramentesi umilia il debole Giannetto Malespini portandogli via Ginevra e buttandolo nel fiume; e questi si vendica: lo fa passare Neri per pazzo, lo fa arrestare, si sostituisce a lui nel letto dell’amante, lo spinge ad uccidere il fratello con un ennesimo, spietato stratagemma), è stata trasportata negli anni Venti del XX secolo, cioè nell’epoca in cui l’opera è stata scritta. Non una grande novità: lo aveva già fatto Liliana Cavani nel suo spettacolo messo in scena a Zurigo nel 1995. Ma Martone ha scelto anche un’ambientazione ben precisa, la New York della Little Italy, del proibizionismo, di Al Capone e Lucky Luciano, trasformando i Chiaramantesi e i Malespini in bande di gangster, cogliendo anche, sottilmente, il carattere molto “italiano” del verismo musicale, con in suoi tratti passionali, il gusto per la violenza e per l’eccesso: «C’è un mondo di maschi, violenti e narcisisti che si confronta sul tema della goliardia, dello scherzo sadico. Alla fine la vittima di soprusi (Giannetto) diventa un killer spietato contro l’arroganza dei fratelli Neri e Gabriello, coinvolgendo l’unico personaggio positivo, Ginevra: la storia insomma funziona benissimo nell’ambiente rissoso e vendicativo dei picciotti italo-americani». Molto “filologiche”, in questo senso, erano anche le scene di Margherita Palli, frutto di un’attenta ricerca in archivi fotografici e di spunti da film di Coppola e Scorsese: un edificio di Harlem a tre piani (a piano terra il ristorante del boss Tornaquinci, al primo piano le stanze di Ginevra, lo scantinato trasformato nella prigione dove Neri viene legato e torturato), che si muoveva verso l’alto e verso il basso, mostrando i diversi ambienti senza soluzione di continuità. Uno spazio scenico immerso in una dimensione da vero noir (grazie anche alle belle luci di Psquale Mari e ai costumi d’epoca di Ursula Patzak), popolato da malviventi armati di mazze da baseball, revolver e mitra. E un crescendo (di violenza, gelosia, sesso, potere) che Martone faceva culminare in un finale davvero poco ortodosso, nel quale la dolce Lisabetta si trasformava in un angelo vendicatore, irrompeva nel ristorante, e col mitra spianato uccideva tutti i nemici del Neri. Una vera e propria carneficina, degna della Strage di San Valentino.

Il tenore Marco Berti ha affrontato con bravura e un’ottima tenuta vocale la difficile parte di Giannetto (molto spinta, e tutta su note di passaggio), con acuti ben timbrati e un bel fraseggio. Non da meno è stato Nicola Alaimo, un Neri dalla voce rotonda, omogenea, con una corpulenta presenza scenica, da vero boss, ma anche bravo a rendere l’ambigua dimensione espressiva tra la rabbia e la follia. Martone ha voluta caratterizzare Ginevra come una sorta di Marilyn Monroe, ragazza di umili origini, molto sensuale, oggetto del desiderio dei tre protagonisti uomini: in questo Kristin Lewis riusciva molto bene, meno sul piano vocale, per la disomogeneità dell’emissione, gli acuti stridenti, il fraseggio poco curato. Notevole invece il soprano Jessica Nuccio nei panni di Lisabetta, per il bel colore vocale e la morbida linea del canto. Sul podio, Carlo Rizzi ha dimostrato di conoscere molto bene la partitura di Giordano, ne ha offerto una lettura asciutta, appassionata ma non enfatica, capace di metterne in evidenza tutta la ricchezza armonica, la ricercatezza dell’orchestrazione (che passava dalla dimensione sinfonica a quella cameristica), le pennellate timbriche (che sottolineavano il carattere di ciascun personaggio), la trama dei Leitmotiv, la varietà degli stili (dal contrappunto severo, allo stornello poplaresco, alla romanza da salotto).

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