Ci sono diversi modi di mettere in scena Wagner, autore che si è prestato negli ultimi decenni a una serie di reinterpretazioni di segno anche opposto tra loro. L’ultimo, originale allestimento del Tristano, presentato all’Opera di Roma con la regia di Pierre Audi (coprodotto col Théâtre des Champs-Élysées, l’Opera di Amsterdam, il Theatro Municipal di San Paolo), ha suggerito un confronto con quello già noto di Katharina Wagner, e con altre recenti letture registiche di opere wagneriane.

Il regista franco-libanese, che a Roma aveva già messo in scena Pelléas et Mélisande nel 2009, ha proposto un allestimento essenziale, senza riferimenti storici o mitologici, senza rimandi al Medioevo, ma con elementi semplici e geometrici, con la forza degli archetipi, esaltati da un magnifico gioco di luci (di Jean Kalman) ed effetti di controluce. Una regia che riusciva a sublimare l’amore di Tristano e Isotta, cogliendone anche la varietà di emozioni contrastanti («Wagner richiede una stilizzazione – dice Audi -, e già la musica suggerisce molto. Quest’opera è fatta di strati di pelle che si squamano e il pubblico deve poterlo immaginare. Banalizzare le relazioni erotiche è ridicolo, specie in Wagner»), giocando su frammenti della memoria e su allusioni. Non c’era il mare, ma elementi che lo evocavano (scene di Christof Hetzer): la riva rocciosa, i lunghi denti di balena, le rugginose, enormi paratie di metallo, che si muovevano con levità sul palcoscenico, come vele al vento. Non c’erano castelli o fortezze, ma dei monoliti, un grande parallelepipedo specchiante che alla fine si trasformava in un portico rettangolare, come un passaggio tra la vita e la morte. Anche la gestualità era anti-realistica, molto composta, quasi ieratica (Tristano e Isotta cantavano sempre lontani tra loro, e si toccavano solo la fronte per un breve istante), sempre sincronizzata con la musica, le sue modulazioni, i suoi snodi drammatici.

Daniele Gatti al suo debutto con Tristano, e al suo debutto all’Opera di Roma, ha dato una lettura pienamente sinfonica, sempre attenta al canto, ricca di sfumature cromatiche, di cambi di velocità, che riuscivano a creare una dimensione sonora sospesa, quasi irrisolta, sempre carica di tensione, ma senza alcuna enfasi lirica o drammatica. Il tenore Andreas Schager era un Tristan dalla voce timbrata, un po’ fibrosa, ma molto espressiva. Molto drammatica e di grande carattere la Isolde di Rachel Nicholls, con la sua voce copiosa ma morbida, capace anche di magnifici filati. Vocalmente elegantissimo il Re Marke di John Relyea, figura insieme nobile, triste e appassionata. Completavano il cast Michelle Breedt (Brangäne), Brett Polegato (Kurwenal), Andrew Rees (Melot) e Rainer Trost (un giovane marinaio, davvero di prima qualità).

Il Tristano di Katharina Wagner, in scena a Bayreuth, al confronto appariva totalmente incoerente, ricco di trovate, pieno di riferimenti pittorici, ma privo di una vera logica teatrale. Era infatti pensato come uno psicodramma, molto cupo, immerso in una dimensione astratta carica di simboli e di visioni, che faceva piazza pulita degli elementi magici: i due protagonisti non avevano infatti bisogno di filtri o pozioni (nella scena del filtro si avvicinavano senza quasi mai toccarsi, e versavano il liquido rosso del filtro sulle mani) ed erano subito animati da una passione divorante. Già nel primo atto Kurwenal e Brangäne facevano fatica a tenerli separati, e re Marke li coglieva appassionatamente abbracciati al loro arrivo in Cornovaglia. Sconvolto dal tradimento, Marke era tutt’altro che umano e paterno, ma dipinto come un tiranno crudele e vendicativo, che nel secondo atto gettava i due amanti in una cupa prigione, osservandone da fuori gli spasimi amorosi, e compiendo la sua fredda vendetta alla fine dell’opera, quando trascinava via Isolde dal cadavere dell’amato, rivendicando il suo diritto su di lei.

Anche qui le scene (di Schlößmann e Lippert) apparivano geometriche, astratte, giocate su sfumature del nero e del grigi, ma concepite come ambienti diversi in ogni atto: il primo atto era un labirinto di scale, che ricordava gli spazi assurdi di Escher, scale che si perdevano nel vuoto collegate da ponti mobili, con i personaggi seduti qua e là meditabondi; il secondo atto era uno spazio chiuso da pareti altissime e nere, come una prigione o una camera della tortura, angosciante, dove i due amanti si nascondevano sotto una tenda improvvisata, venivano seguiti da fari fotoelettrici e poi rinchiusi in una strana gabbia fatta di anelli metallici; nel terzo atto, visionario, immerso nella nebbia, lo straordinario gioco di luci di Reinhard Traub dava forma alle allucinazioni di Tristano che vedeva il fantasma di Isolde comparire in prismi luminosi dislocati in vari punti della scena, immagini angoscianti insanguinate, che improvvisamente scomparivano nel nulla, mentre quattro uomini vegliavano intorno al lui, come in un dipinto del luminismo seicentesco. Un po’ didascaliche, e anche ingenue, le corrispondenze dei colori nei costumi di Thomas Kaiser: Tristan e Isolde in azzurro, Kurnevald e Bragäne in verde, Marke e il suo seguito in giallo, il bianco per il vero nuziale, il rosso per il sangue, il filtro, la passione amorosa. La direzione musicale di Christian Thielemann era dettagliata, carica di lirismo e di ombreggiature, ma priva di estasi e mistero. Il cast era dominato da Stephen Gould, magnifico Tristan per timbro pastoso e levigato, l’impronta lirica, la grande musicalità, il fraseggio morbido.

A Bayreuth è stato riproposto anche il Fliegende Holländer di Jan Philipp Gloger, esempio di lettura “politica” di Wagner, un’interpretazione del mito dell’Olandese volante in chiave anticapitalista, anche se rispettosa dell’impianto drammaturgico wagneriano. Anche qui non c’erano marinai, né navi, né porti, né filatrici. Ma restava la dimensione fantastica, leggendaria, e la contrapposizione, centrale nell’idea drammatica e musicale di Wagner, tra il mondo reale e quello soprannaturale, tra la vita degli uomini e quella dei fantasmi. Il mondo terrestre, umano e borghese era incarnato da Daland (Peter Rose, dalla voce non proprio vigorosa, ma tecnicamente impeccabile), imprenditore nel ramo dei ventilatori, accompagnato non da marinai ma da un esercito di impiegati in abito grigio, e sempre affiancato dal timoniere-segretario (un eccellente Benjamin Bruns, già ammirato nei Meistersinger di Monaco). Daland ritornava nella sua fabbrica ordinatissima (scene di Christof Hetzer), con efficienti catene di montaggio, dove allegre e vezzose operaie erano intente ad inscatolare i ventilatori (che sostituivano efficacemente l’effetto ruotante dell’arcolaio), guidate da Mary (una energica Christa Mayer). Dall’altro lato c’era l’Olandese (Thomas Mayer, dalla voce bella ed espressiva, forse un po’ leggera) con la testa per metà rasata e tatuata, come un cyborg che circolava con un trolley pieno di banconote, all’interno di un mondo sinistro, dominato da un reticolo di circuiti elettrici, contatori digitali, fasci di led. Perfetta come anima gemella era Senta (Ricarda Merbeth, wagneriana di razza, non sempre omogenea timbricamente), figlia difficile, introversa, dai gusti dark, che nella fabbrica di ventilatori giocava a creare forme d’arte inquietanti con i cartoni di imballaggio e vernici nere (che sembravano periodicamente colare su tutta la scena), dando anche forma a una mostruosa statua dell’olandese. Inutilmente tentava di farla rinsavire il povero Erik (bravissimo Andreas Schager, dal grande talento drammatico. E alla fine anziché gettarsi in mare, si suicidava trafiggendosi con un pugnale, e abbracciava l’Olandese in cima alla catasta di scatole di cartone, un abbraccio che si trasformava in una scultura, altra “merce” utile al mercato.

Ancora diversa la rilettura in chiave moderna, e teatralmente molto efficace, del Parsifal di Uwe Eric Laufenberg, sempre a Bayreuth. Partendo dall’idea della rinuncia come supremo atto d’amore – non l’amore individuale, ma la pietà, l’amore universale, che è risvegliato nell’uomo dalla percezione delle sofferenze del mondo – e dall’idea della conoscenza attraverso la compassione (sintetizzata nel mantra «Durch Mitleid wissen»), Laufenberg ha trasportato la vicenda in una regione desertica del Kurdistan iraqeno, e la rocca del Graal in una chiesa sventrata dai bombardamenti. In quella chiesa giacevano le vittime della guerra, sanguinanti, affamate, che venivano accudite da caritatevoli cavalieri, si aggiravano miliziani in mimetica, armati fino ai denti, entrava un bambino ferito insieme al cigno colpito da Parsifal, in una corrispondenza molto significativa. E in quella chiesa Amfortas veniva rappresentato come Cristo, come una vittima sacrificale destinata a donare il sangue per quella comunità. Lo scenografo Gisbert Jäkel aveva realizzato al centro di quella chiesa un enorme fonte battesimale, sovrastato da una cupola, che alla fine del primo atto diventava il punto di partenza di un video bellissimo (di Gérard Nazini), concepito come una lunghissima zoomata che dalla chiesa portava verso spazi siderali, e che corrispondeva bene alla dimensione metafisica evocata dalle enigmatiche parole di Gurnemanz «qui il tempo diventa spazio».

Nel secondo atto, quella chiesa si trasformava in uno spazio a metà tra una moschea e un serraglio, che corrispondeva anche molto bene al contrasto ambientale che Wagner aveva immaginato tra la Spagna gotica e quella moresca del castello di Klingsor. E lì giovani donne islamiche si toglievano il chador e si svelavano come sensuali, avvenenti odalische che circondavano Parsifal, lo spogliavano, lo immergevano in una grande vasca cospargendolo di fiori, osservate da Klingsor, il cavaliere reietto, che si flagellava in una piccola cella, zeppa di crocefissi. Ma Parsifal non cedeva alla seduzione di Kundry, vedeva materializzarsi davanti a lui il fantasma Amfortas, come un monito, e alla fine si impossessava della lancia di Klingsor, la spezzava facendone una croce. Nel terzo atto si rivedeva la chiesa diroccata, ma invasa dalla vegetazione, come immersa in una foresta tropicale. E nell’estatico episodio del Venerdì Santo era proprio la natura che sembrava riconquistare la scena, insieme alla sua innocenza, con la pioggia torrenziale e le ragazze nude che giocavano sotto l’acqua. E in questa dimensione panteista, i cortei dei cavalieri si traformavano in una moltitudine di individui di religioni diverse, che alla fine gettavano nella bara di Titurel tutti i simboli della propria identità religiosa. Come un unico popolo che ritrovava il senso della fratellanza, mescolandosi al centro di una scena immersa in fumi luminescenti, mentre la luce che invadeva la chiesa e poi anche tutta la sala, come in un grande abbraccio pacificatore.

Insomma, quella che era stata temuta come una regia provocatoria e antislamica, e che aveva spinto le autorità ad approntare un eccezionale sistema sicurezza intorno alla “collina verde”, si è rivelata una lettura molto vicina al pensiero di Wagner (ispirato dalle letture di Feuerbach e di Schopenhauer), che coglieva molto bene lo spirito dell’«azione scenica sacrale» (Bühnenweihfestspiel), la sua dimensione sovratemporale, l’idea che l’unica salvezza per l’uomo possa venire solo andando oltre la religione. Laufenberg ha visto nel Parisfal un’opera «pan-religiosa» o «post-religiosa», capace di andare alle radici spirituali di ogni religione, in una visione molto simile a quella di Gandhi o del Dalai Lama.

Eccellente il cast, dominato dal tenore Klaus Florian Vogt, un eroe giovanile, irrequieto, espressivo, molto musicale, con una voce un po’ aperta, ma sempre a fuoco, e con un fraseggiare tenero e struggente. Straordinaria anche la prova di Georg Zeppenfeld, un Gurnemanz di grande autorevolezza, senza pose, sempre controllato come un vero saggio, e con una voce piena, sonora, omogenea in tutti i registri. Un Gurnemanz snello e tutt’altro che decrepito, così come molto atletico appariva l’Amfortas dell’americano Ryan McKinny, capace di cogliere vocalmente molto bene l’espressione della sofferenza. Kundry era la russa Elena Pankratova, che sfoggiava un colore naturalmente sensuale, e una grande duttilità nel rendere la doppia natura del suo personaggio, santa e luciferina. Di grande forza drammatica anche la prova degli altri due bassi, il Klingsor di Gerd Grochowski e il Titurel di Karl-Heinz Lehner. Dal golfo mistico, Hartmut Haenchen (che ha rimpiazzato all’ultimo momento Andris Nelsons) estraeva un suono radioso, dipanando molto bene la trama dei Leitmotive strettamente concatenati, sottolineando le fluttuazioni dinamiche, le sfumature e i trascoloramenti timbrici («come strati di nuvole che si dividono e poi si ricompongono», scriveva Wagner), realizzando compiutamente quell’idea di transizione continua idealizzata da Wagner.

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