Tra le agende per i deputati di Montecitorio costate 3,015 milioni di euro in 3 anni e gli scandali sui rimborsi elettorali, non si può certo dire che i partiti godano oggi di buona fama. Stando ai sondaggi, la fiducia nelle formazioni politiche italiane è attorno al 2 %, cioè meno dei militanti dei partiti stessi.

Proprio mentre si apprestavano a eclissarsi, temporaneamente, dietro le quinte del governo dei tecnici, i riflettori si sono riaccesi proprio su di loro, i partiti, o meglio sui loro conti. E così, a 20 anni da Tangentopoli, ecco cadere anche la seconda Repubblica con un copione tutto sommato simile a quello del 1992. Questa volta a innescare lo scandalo politico-economico è stata proprio la Lega Nord. Il movimento cresciuto sull’onda di Mani Pulite, contro sprechi e inefficienze di “Roma ladrona”, travolto dalle inchieste della magistratura, si sta rivelando simile, o forse anche peggiore, di quelle formazioni politiche contro le quali agitava i cappi in Parlamento negli anni ’90. E mentre la Lega affonda fra le “spese pazze” del Trota e di Belsito, diamanti scomparsi, lingotti d’oro e chissà cos’altro, gli altri non se la passano meglio. Invischiati in scandali economici trasversali, resi ancor più indigesti dai sacrifici chiesti ai cittadini per uscire dalla crisi, i partiti italiani non sono mai stati così impopolari.

Il fenomeno Grillo
L’unico che sembra trarre beneficio dalla situazione di dissesto in cui versa la politica italiana,è Beppe Grillo e il suo Movimento a 5 stelle. “Dobbiamo fare una piccola Norimberga”, ha detto di recente il comico genovese paragonando i partiti italiani ai criminali nazisti messi a processo dopo il secondo conflitto mondiale. Il Movimento di Grillo fin da quando si è costituito, nel 2009, propone l’abolizione dei partiti politici e una democrazia non rappresentativa, dove i cittadini si autogovernano. Non stupisce dunque che oggi Grillo torni alla ribalta. La risposta al Movimento 5 stelle, che è sicuramente uno dei più importanti fermenti dal basso nell’Italia di oggi, continua ad essere banale: temendo un prevedibile successo per le liste di Grillo alle amministrative di maggio, da Casini a Vendola, tutto il gota della politica italiana ha cominciato a gridare all’ antipolitica e a stracciarsi le vesti. Eppure i 5 stelle sono fra i pochi che ancora parlano di politica nel senso più originale del termine: occuparsi di ciò che interessa ai cittadini nella vita quotidiana, temi come ambiente, legalità, urbanistica.

Non è tutto oro quello che luccica
Eppure, il fenomeno del “grillismo” , come è stato ribattezzato un po’ superficialmente dai media, è decisamente ambiguo e zeppo di contraddizioni. Grillo spara a zero sulla “partitocrazia” e propone una visione manichea della realtà : i buoni (lui e il suo movimento) e i malvagi (tutti gli altri), offrendo soluzioni spesso semplicistiche ai problemi di una società sempre più complessa. Se è vero che la democrazia, come è stata adottata nel corso del ‘900 in Occidente, incontra oggi crescenti difficoltà nel rappresentare adeguatamente la volontà degli elettori, Grillo con il suo rifiuto di qualsiasi confronto pubblico non fa intravedere una soluzione a questo problema. L’”epurazione” da parte del comico genovese nei confronti di Tavolazzi, consigliere comunale a Ferrara e di altri “grillini” eletti nelle liste a 5 stelle, ha gettato di recente in subbuglio il movimento. L’accusa rivolta dal leader agli “scomunicati” è nientedimeno quella di aver organizzato incontri per discutere di persona, e non sul web, del futuro del movimento. “Partitocrazia!” ha sentenziato il comico genovese espellendo con un diktat i malcapitati. Alla faccia della democrazia dal basso! Altro che “ognuno vale uno”: a livello nazionale la linea la detta Grillo, senza discussioni (il Grillo parlante peraltro sembra non conoscere l’aforisma di Pietro Nenni: “c’è sempre qualcuno più puro che ti epura”).
È probabilmente il limite di ogni movimento dal basso: il rifiuto di ogni forma organizzativa o di gerarchia va bene a livello locale, ma rende quasi impossibile il coordinamento di un movimento su scala nazionale , a meno di non ricadere nell’odiata “partitocrazia” o nei diktat di un leader. È possibile allora una democrazia diretta, non rappresentativa su scala nazionale?
Una sorta di gigantesca Atene classica, fatta di milioni di abitanti ,dove la piazza (virtuale) in cui discutere di problemi è Internet invece dell’agorà delle antiche poleis : sembra essere questo il modello a cui aspirano Grillo e i suoi. Ma è davvero ciò che dobbiamo augurarci?

Democrazia diretta: un mito da sfatare?
La stessa democrazia Ateniese, spesso mitizzata come l’unica capace di realizzare pienamente gli ideali di uguaglianza, giustizia e libertà, aveva in realtà delle caratteristiche che oggi difficilmente saremmo disposti a accettare, nonostante Beppe Grillo. Innanzitutto quella Ateniese era una democrazia elitaria: ne erano escluse le donne, gli schiavi e coloro che non avevano la cittadinanza ateniese, che per i tempi era un privilegio più che un diritto. I cittadini effettivi erano all’incirca 20.000 mentre gli schiavi o gli stranieri oltre 300.000. Una sorta di circolo chiuso in cui i pochi “iscritti al club” potevano sì presentare delle proposte alla bulè (il consiglio dei 500 voluto da Clistene), ma poi il consiglio stesso decideva quali erano ammissibili al voto da parte dell’ecclesìa (l’assemblea dei cittadini) e quali no. Nella maggior parte dei casi l’assemblea era chiamata a votare prevalentemente proposte avanzate alla bulè dagli arconti e dai magistrati, garanti della legislazione tradizionale, che rispondevano direttamente al capo del governo. Chi osava proporre delle iniziative non conformi alla legislazione tradizionale rischiava una condanna fino a 10 anni di esilio: il cosiddetto ostracismo. E proprio l’ostracismo veniva spesso usato come un’arma politica per eliminare tutti gli oppositori del governo cacciandoli dalla città. Fu proprio la democrazia ateniese, in fin dei conti, a condannare a morte Socrate con l’accusa di traviare i giovani con la pratica del libero pensiero. Chi oggi invoca la democrazia diretta, difficilmente si troverebbe a suo agio nell’Atene di Pericle, dove il popolo era facile preda del demagogo di turno, pronto a piegarlo con la retorica ai suoi voleri e a far a cambiare le leggi sull’onda dell’emotività suscitata. Anche nella vicina Sparta la democrazia diretta fu, prima “commissariata” da 5 efori con poteri di controllo su tutto l’operato dell’assemblea popolare, e infine si trasformò in una strana forma di tirannia collettiva che si limitava a rieleggere i 5 tiranni di anno in anno. Nell’Italia Comunale del tardo Medio Evo invece, si istituirono podestà, consoli, tribuni, a seconda delle varie città, che avevano il compito di controllare, affiancare e “dirigere” le assemblee dei liberi cittadini riuniti nelle piazze per evitare gli inconvenienti della democrazia diretta.

La volontà popolare e i partiti di massa
La storia ci insegna che la democrazia diretta non può essere associata all’esercizio dei diritti politici da parte delle masse. Il nostro concetto di sovranità popolare riguarda tutte le persone presenti in uno Stato e nasce con Rousseau e gli illuministi nel XVIII secolo, ben dopo l’esperienza politica dell’Atene classica. Non a caso, il nostro concetto di democrazia, a differenza di quello degli antichi, è strettamente legato a quello dei diritti dell’uomo e del cittadino, che si affermarono grazie all’Indipendenza Americana prima e alla Rivoluzione Francese poi. I partiti di massa, nati nel XIX secolo, rappresentano il tentativo di dar voce a tutto il corpo elettorale. In Italia, il primo partito con queste caratteristiche fu il partito socialista nato dopo la legge Zanardelli che allargava il suffragio a tutti i maggiorenni maschi alfabetizzati che pagavano almeno 20 lire all’anno di tasse. Ci volle un’altra legge di Giolitti del 1912 , modificata nel 1919, per arrivare definitivamente al suffragio universale nel nostro paese che poi sarà “realmente” tale solo nel 1946 con l’ammissione delle donne al voto.

Post democrazia e deliberazione
Oggi i cambiamenti epocali che stiamo vivendo stanno mettendo a dura prova la democrazia rappresentativa. Si ha la sensazione che le istituzioni siano oramai svuotate dall’interno: il cittadino può solo legittimare con un voto a posteriori i presenti in parlamento, sapendo che applicheranno un programma che poco o nulla ha a che fare con le sue esigenze. Nel frattempo, grazie a Internet e alle nuove tecnologie, è disponibile una grande quantità di informazioni come mai prima nella storia umana. Si avverte quindi un dislivello notevole fra il livello di informazione e quello di decisione a cui si ha accesso. Se lo strumento della rete è utile per informarsi e per discutere, due caratteristiche fondamentali per il processo democratico moderno, non lo è altrettanto per decidere. In ogni sistema democratico (anche nelle antiche democrazie dirette) c’è bisogno che le proposte, una volta discusse, vengano attuate e per far questo c’è bisogno di un organo più o meno rappresentativo, quindi necessariamente più ristretto rispetto all’intero corpo elettorale. Questo organo non può essere la Rete, perché tutti sappiamo, per esperienza, che essa può ospitare qualsiasi opinione e discussione, per un tempo pressoché infinito. La democrazia non si esaurisce con lo scambio di opinioni, ma implica l’assumere delle decisioni per il futuro. Attuare un’opera riformatrice in questa fase è necessario oltre che opportuno, ma prima di mandare in soffitta i partiti di massa bisognerà cercare un’altra soluzione che ci permetta di far funzionare il nostro Stato secondo i nostri principi e secondo non quelli di un greco di qualche millennio addietro, perché in fondo, come sosteneva Winston Churchill, la nostra democrazia “è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle sperimentate fino ad ora”.

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