Il lavoro di Renzi non è ancora partito e già arriva la prima tegola sull’esecutivo, riportato coi piedi per terra dai tecnici della Commissione dopo le mirabolanti promesse in stile campagna elettorale.
Il nodo centrale è sempre lo stesso: i nostri conti pubblici non sono sostenibili, il debito è inaccettabilmente elevato (134% del Pil) e con una pericolosa tendenza alla crescita, il reddito rimane stagnante. Non si tratta certo di un attacco al nuovo premier, anche se lui sembra prenderla sempre sul personale, come qualcun altro prima di lui.
La risposta alle critiche è stata sorprendentemente, ma non troppo, nazionalistica, quasi di orgoglio, che onestamente ha poco senso vista la strutturale incapacità del nostro sistema politico di affrontare questa situazione ultradecennale. L’accenno all’inaffidabilità dei numeri riportati dal precedente governo è stato poi un colpo basso e forse autolesionistico, poiché a ben vedere si parla della stessa identica maggioranza.

Di cosa ci accusa esattamente l’Europa? Gli “squilibri macroeconomici” sotto analisi riguardano una serie di variabili, di cui il debito pubblico è solo una parte.
La bilancia commerciale, ovvero la differenza tra importazioni ed esportazioni, è un altro punto dolente per il nostro Paese: le quote di mercato italiane si vanno inesorabilmente riducendo, anche se va detto che la situazione è migliorata notevolmente rispetto al 2010, per cui lo scorso anno si è registrato un surplus, seppur minimo.
La vera notizia è che questi squilibri in Italia sono stati giudicati “eccessivi”, facendoci rientrare nel gruppo dei “cattivi” del quale fanno parte, oltre a noi, solo Slovenia e la Croazia, new entry. Per completezza, occorre sottolineare che i paesi in regime di aiuti (Spagna, Grecia, Romania e Portogallo) non sono contemplati in questa procedura.
Quel è il possibile risultato? Una multa fino ad un massimo dello 0,1% del Pil e, ben più importante, l’apertura di una procedura d’infrazione, processo dal quale siamo faticosamente usciti non più di pochi mesi fa.
Se gli squilibri macroeconomici esistono (alto debito, poca produttività, zero crescita e tanta disoccupazione), le perplessità del governo sull’eccessività sono anche comprensibili, poiché nel 2013 ci sono state spese una tantum accordate proprio con la Commissione, tra cui il pagamento dei debiti con la P.A. In pratica, ci puniscono per qualcosa che “loro” hanno imposto.

La storia non è proprio questa, ma nella nazione di allenatori ed economisti la realtà dei fatti può essere agevolmente modellata sulla base delle necessità politiche contingenti.
Se è vero, infatti, che la decisione di Bruxelles è criticabile, non si può certo dire che l’Italia abbia fatto di tutto per ridurre il debito o per rilanciare la crescita. L’immobilismo del governo Letta, in tal senso, è sotto gli occhi di tutti. Invece di frasi stereotipate tipo “non prendiamo lezioni dall’Europa”, quando forse imparare qualcosa dal nord dell’Unione non ci farebbe male, sarebbe utile andare al prossimo Consiglio Ecofin a chiedere perché gli squilibri della Germania non sono considerati eccessivi, seppur in senso inverso al nostro.
Le esportazioni tedesche, infatti, continuano ad aumentare esponenzialmente, ma la domanda interna ristagna: potrebbero spendere di più, comprare molti più beni dall’estero (tra cui i nostri), ma scientemente decidono di non farlo, perché il vantaggio relativo in termini di inflazione, quindi di prezzi, è troppo grande.
Quando da Bruxelles fanno notare questo aspetto, la risposta è sempre laconica: non c’è, secondo il ministro delle finanze tedesco, alcuna relazione dimostrata tra la domanda interna della Germania e gli squilibri all’interno dell’Unione. Punto.

Ci sarebbero mille ragioni, dunque, per criticare le politiche comunitarie di austerità e il ruolo di evidente supremazia che ormai la Germania ormai ricopre, sostanzialmente incontrastata. La reazione di Renzi, tuttavia, è quantomeno scomposta, perché non si può liquidare un problema enorme, che coinvolge le fondamenta stesse della moneta unica, asserendo che l’Italia sa benissimo cosa deve fare.
Finora non lo abbiamo certo dimostrato: siamo gli ultimi della classe e questo è un dato di fatto che la politica deve affrontare di petto, invece di nascondersi dietro posizioni populistiche. La Commissione, dal canto suo, ha ragione quando dice che i conti pubblici non sono esplosi grazie alle operazioni massicce di acquisto da parte della BCE, ma primo anche queste misure finiranno.
Il punto, semmai, è stabilire una volta per tutte che le imposizioni comunitarie non hanno funzionato, come si evince dalla condizione dei paesi che ricevono i finanziamenti, in primis la Grecia, dove creare la crescita è ormai un esercizio disperato.

La crescita, appunto. Anche i più critici nei confronti della condotta dei paesi mediterranei ormai si rendono conto che senza valori positivi del Pil per un certo numero di anni, i tagli alla spesa sono inutili, se non controproducenti.
Se vuole rimettere in moto il Paese, Renzi deve concentrarsi su questo punto, rompendo schemi e tradizioni consolidate che comprimono la nostra economia. Il costo del lavoro, più che la riforma dei contratti, rappresenta uno dei cardini del cambiamento: ogni riduzione di spesa dovrebbe essere reinvestita per abbattere il cuneo fiscale, altrimenti la nostra competitività non può che peggiorare.
Il Job Act, in tal senso, rappresenta una misura complementare, qualunque sia il contenuto, perché possiamo inventarci mille forme contrattuali, ma senza un alleggerimento delle tasse si continuerà a non assumere.
Un’altra barriera da demolire riguarda gli investimenti esteri, in modo da rendere il Paese più appetibile per le grandi imprese straniere. Ben vengano Telefonica o Etihad, se hanno soldi da investire, perché la difesa ad oltranza dell’italianità non paga, specie quando è sinonimo di spechi e cattiva gestione.

Le prime ipotesi d’intervento, tuttavia, sembrano ripercorrere vecchie strade che non hanno certo portato risultati brillanti.
Le idee sul rientro dei capitali e la detassazione delle rendite mal si sposano con la tanto sbandierata aria di cambiamento, poiché alleggeriscono il carico di chi, con tutta probabilità, non ne ha alcun bisogno.
Anche l’utilizzo dei fondi UE per il sostegno all’economia non sembra praticabile: quei soldi hanno una destinazione d’uso specifica, ovvero le infrastrutture, ma puntualmente non abbiamo saputo utilizzarli, visto che l’anno scorso abbiamo dovuto restituire 6 miliardi di euro per mancanza di progetti idonei.
D’altra parte, questi ragionamenti non fanno parte dell’arena politica, non portano consensi, mentre basta dire che dobbiamo “correre, senza scherzare” perché il popolo si infiammi. Il premier stia sereno, che la voglia di scherzare è passata parecchio tempo fa.

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