Nelle isole Carteret, in Papua Nuova Guinea, il riscaldamento globale è un problema serio. Molto serio. Il livello del mare continua a salire, lento, inesorabile e ogni anno divora 8 millimetri di terra. Sommerge gli alberi, le colture, le case, minaccia le persone. L’epilogo di questa storia è uno solo: in meno di 3 anni i sei meravigliosi atolli situati a 50 miglia dalla costa della Papuasia saranno inghiottiti dall’Oceano. Non ci sarà più una casa per le 2mila persone che attualmente vivono lì. Non ci saranno più i loro campi, i palmeti, le spiagge bianchissime.

Come accade alle scritte sulla sabbia, le onde del mare stanno via via cancellando la loro storia e la loro identità e a nulla serviranno le barricate di corallo che gli abitanti hanno innalzato sulla spiaggia per arrestare l’avanzata dell’oceano. Per le 40 famiglie delle isole Carteret il futuro è arrivato ma non è come esattamente lo avevano immaginato: il loro destino è quello di essere delle persone in fuga verso posti più sicuri, come la vicina isola di Bougainville. La loro nuova identità è quella di profughi ambientali o eco-profughi.
 

 

La mappa dei disastri
«Ogni anno – spiega Maurizio Gubbiotti, coordinatore segreteria nazionale, responsabile del dipartimento internazionale di Legambiente Onlus – circa sei milioni di persone sono costrette a migrare a causa di disastri ambientali provocati dai cambiamenti climatici. Si tratta di un fenomeno in continua crescita che, secondo le previsioni delle Nazioni Unite, da qui al 2050 potrebbe interessare 250 milioni di persone».
Al 2010 le persone che hanno perso tutto a causa di un alluvione, un terremoto, un ciclone o per la siccità, sono stati 42 milioni e nel 2011 la situazione non è certo migliorata dato che si è trattato di un anno caratterizzato da molti eventi climatici estremi tra cui, non da ultimo i devastante terremoto che ha colpito il Giappone causando uno tsunami che ha provocato la morte di 15.500 persone e danni per circa 210 miliardi di dollari.
Le zone maggiormente colpite sono le regioni del sud-est asiatico, quelle dell’africa sub-sahariana e alcuni paesi del centro e Sudamerica. Dal Bangladesh alle Filippine alla Cambogia, ala Colombia al Corno d’Africa la lista è lunga.
«L’80% delle vittime di un disastro ambientale – continua Gubbiotti – rimane all’interno del proprio paese cambiando semplicemente villaggio o, al massimo, raggiunge i paesi confinanti perché non ha i soldi necessari per di sostenere i costi di una migrazione più impegnativa. Solo una piccola parte, tra il 10 ed il 20%, dopo aver perso tutto, decide di migrare verso i paesi occidentali come l’Europa o gli Stati Uniti inserendosi e in un lasso di tempo di circa 5 anni dall’evento disastroso si inserisce negli ordinari canali migratori appannaggio, come è noto, delle organizzazioni criminali di tutto il mondo specializzate bella vendita dei viaggi della speranza».
Il costo dello sbarco in Europa è di circa 5mila euro a persona anche se possono non essere sufficienti. Il che si traduce in un business, quello della migrazione e nello specifico quella ambientale, che frutterebbe circa 6 miliardi di euro all’anno alle organizzazioni malavitose di tutto il mondo.

I danni ambientali
Nel 2011 tutti i continenti sono stati interessati da disastri ambientali. Secondo le statistiche dell’ International Disaster Database nel corso di quest’anno ci sono stati 302 eventi climatici estremi che hanno colpito circa 206 milioni di persone determinando danni economici stimati in circa 380 miliardi di dollari.
In Thailandia e Cambogia, ad esempio, che nel 2011 hanno subito le più gravi inondazioni della loro storia, sono state quasi 10 milioni le persone colpite e i danni alle strutture e ai campi hanno determinato, fra l’altro la distruzione del 25% del raccolto di riso della Thailandia che è il più grande esportatore al mondo innescando un aumento dei prezzi su scala mondiale.
Le violenti piogge cadute nel Bangladesh sudorientale hanno generato 20mila nuovi senza tetto che si vanno ad aggiungere ai 400mila già colpiti dalle inondazioni precedenti. In Colombia, ammontano a quasi 6 miliardi di dollari, pari al 2% del pil del paese, i danni causati dalle forti piogge.
La siccità e gli incendi nel sud degli Stati Uniti e in Messico hanno colpito le colture, gli allevamenti di bestiame e la produzione di legname, provocando perdite stimate di 10 miliardi di dollari che si prevede, continueranno ad aumentare.
Il triste elenco abbraccia anche molti paesi africani. In particolare in Somalia e nel Corno d’Africa dove è in corso la peggiore siccità degli ultimi 60 anni che ha aggravato le condizioni di vita di circa 10 milioni di persone.

I costi sociali
Non è possibile invece fare una stima dei costi sociali legati alle migrazioni ambientali. Ciò dipende dal fatto che la comunità internazionale non riconosce lo status giuridico di profugo ambientale rendendo di fatto impossibile un censimento e questo nonostante, negli ultimi 3 anni, gli eco-profughi hanno superato, secondo le stime Onu, il numero dei profughi di guerra.
«Abbiamo calcolato – spiega Christopher Hein, direttore del consiglio italiano per i rifugiati, una organizzazione non governativa indipendente nata con l’appoggio dell’alto commissariato Onu per i rifugiati – che occorre una spesa di circa 3mila euro per favorire l’accoglienza e l’integrazione di un profugo. Si tratta di un investimento di base che gli consentirà di andare avanti con le sue gambe e che è destinato in buona sostanza alla formazione linguistica e professionale, ad esempio, o all’inserimento lavorativo con borse di lavoro».
Se moltiplichiamo questa spesa per quella parte di 6 milioni di profughi ambientali che ogni anno raggiungono i paesi occidentali (circa 1,2 milioni) si potrebbe ricavare una spesa sociale necessaria iniziale di circa 3,6 miliardi di euro all’anno che per il momento è affidata quasi esclusivamente alla solerzia e alla puntualità degli aiuti umanitari soprattutto in ragione del fatto che ai profughi ambientali non è riconosciuto alcuno status giuridico.
«Il riconoscimento di questo status da parte della comunità internazionale – continua Hein – è uno dei nostri obiettivi per il prossimo futuro. Sappiamo che un passo del genere è già stato fatto, per quanto riguarda l’Europa, da Svezia e Finlandia, ma questa riflessione andrebbe condivisa da tutti gli stati. Quello degli eco-profughi è un problema che riguarda la comunità internazionale e non i singoli paesi per cui occorre sviluppare un dibattito e delle norme che valgano per tutti anche in considerazione del fatto che questo fenomeno sta crescendo in maniera significativa ed è destinato ad essere di lunga durata perché, a differenza dei rifugiati ad esempio politici, gli eco-profughi sono persone che molto probabilmente non rientreranno mai nelle loro terre d’origine perché ormai devastate».

Profughi_ambientali Legambiente 2012

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *