In attesa di conoscere l’esito delle ennesime consultazioni e del difficile tentativo affidato a Enrico Letta, non ci resta che sperare ,a due mesi dal voto, che l’Italia possa avere finalmente un governo.

Ma l’esito del nuovo incarico non è affatto scontato: la settimana appena trascorsa, per certi versi drammatica, per altri surreale, ha messo a dura prova la tenuta del Paese, consegnando l’immagine di un’Italia profondamente divisa in blocchi ormai inconciliabili, con i partiti ridotti all’impotenza dall’esito del risultato elettorale e, soprattutto, dai veti incrociati all’interno dei partiti stessi. Ma la divisione più profonda è probabilmente quella fra la “piazza” e il “Palazzo”: le proteste contro la rielezione di Giorgio Napolitano e soprattutto contro un accordo in Parlamento fra Pd e Pdl, si sono trasferite ben presto dalla rete alle piazze.

Per quanto legittima la richiesta di cambiamento non può non tener conto dei vincoli costituzionali: l’elezione del Presidente della Repubblica è affidata agli eletti delle Camere, possibilmente con l’accordo più ampio possibile fra le forze in Parlamento. Per questo gridare al golpe non ha senso, così come boicottare ogni forma di dialogo fra le forze politiche, reso obbligatorio dalla realtà dei fatti (il risultato del voto), in nome di un vago concetto di “inciucio”. Certo, chiedere a Napolitano di farsi rieleggere per un secondo mandato ha rappresentato un fallimento della politica e soprattutto dei partiti, Pd in testa, ma per il semplice fatto che essi non sono riusciti a trovare un accordo su un nome condiviso. Proprio il fallimento del dialogo in Parlamento e all’interno dei partiti ha portato al secondo mandato di Giorgio Napolitano. Più che di inciucio si può al massimo parlare, per ora, di una resa dei partiti.

Le decisioni prese dai gruppi dirigenti si sono dimostrate di volta in volta inconcludenti o sbagliate, sotto la spinta di una pressione sempre più forte venuta anche dall’esterno e soprattutto dalla rete. Si è molto parlato dell’influenza che hanno avuto Twitter e i social media nel condizionare l’orientamento dei parlamentari, soprattutto di quelli del Pd: per la prima volta i cittadini sono riusciti a “entrare” nelle stanze dei bottoni dialogando in diretta con i rappresentanti eletti in Parlamento, spingendoli verso l’una o l’altra direzione.

Le quirinarie e il ruolo del Parlamento
Tuttavia a decidere, alla fine, è stato il Parlamento e non la piazza virtuale o reale che fosse, ed è giusto così. È giusto perché, in primo luogo, la Costituzione non prevede l’elezione diretta del Capo dello Stato da parte dei cittadini e, anche in quei Paesi, come gli Stati Uniti, dove c’è l’elezione diretta del Presidente, la votazione spetta ai grandi elettori (termine ora importato anche da noi) e non direttamente al popolo. Quindi finché non si modifica l’assetto istituzionale è inutile gridare al colpo di Stato. La seconda ragione per la quale sarebbe stato sbagliato eleggere un Presidente a furor di popolo, è che il candidato della rete, o meglio di Grillo, Stefano Rodotà, aveva sì tutte le carte in regola per poter fare il Presidente, tuttavia il presunto plebiscito nell’agorà virtuale di Grillo non sembra ci sia stato. Prendendo per buone le modalità con cui si sono svolte le cosiddette quirinarie del Movimento a 5 Stelle (sulla cui trasparenza molti hanno sollevato dei dubbi), i voti ottenuti da Rodotà sono stati 4.677: un po’ pochi per farne il candidato della rete e, soprattutto, per sovvertire le regole costituzionali e farlo eleggere – di fatto – dalle piazze.

Uscendo dal ristretto suffragio sulla piattaforma online a 5 Stelle, salta all’occhio che tutti i sondaggi, online e non, davano altri nomi come super preferiti dal “popolo della rete” ,come ad esempio quello di Emma Bonino su cui però non si sono consumate proteste di piazza o scene di isterismo collettivo: la Bonino è stata ignorata tanto dal palazzo, tanto da quella piazza che evidentemente non era poi così rappresentativa della volontà popolare come voleva sembrare.

Il mito della democrazia diretta ad Atene: un falso storico

Mentre in rete monta la nuova protesta contro il probabile governo di larghe intese o di “servizio al Paese”, bisognerebbe domandarsi se sostenere che la politica debba sottostare alla volontà della piazza, e oggi di quella moderna agorà che è la rete, non significhi, in fin dei conti, fare pura demagogia.

Sull’impossibilità di ricreare una democrazia diretta tramite l’agorà della rete abbiamo già detto in passato, ma quello che è importante sottolineare è che gli antichi abitanti dell’Atene del V secolo, la culla della democrazia, pur attribuendo un notevole peso alla piazza per ottenere il consenso, in fin dei conti non è che la ascoltassero più di tanto quando si trattava di prendere delle decisioni. Esaltare la cosiddetta democrazia partecipata attraverso la rete, richiamandosi alle forme di partecipazione diretta dell’Atene del V secolo, e presentarla come la massima forma possibile di partecipazione democratica è, tutto sommato, un falso storico. Uno Stato moderno non può essere paragonato per dimensioni e per complessità ad una antica polis greca, tuttavia, perfino nell’Atene di Pericle, una città-Stato di poco più di 100mila anime, avevano capito che è impossibile nonché pericoloso governare la Cosa Pubblica ascoltando tutta la popolazione.  A prendere le decisioni nell’Atene classica era la Boulé, il consiglio dei 500 (paragonabile con le debite differenze al nostro Parlamento): 500 membri eletti dalle cinque tribù di Atene suddivise per demi, secondo la riforma censitaria introdotta da Solone e portata a compimento da Clistene. 100 membri  per ogni tribù venivano eletti per far parte della Boulé (ogni componente riceveva 5 oboli al giorno per tutta la durata dell’incarico, per ricordare anche i costi della politica) e l’assemblea generale, l’Ecclesìa, era la piazza, oggi sostituita  dalla rete nel mondo a 5 stelle. Ma più che a prendere decisioni l’assemblea generale, la piazza, era convocata per ascoltare e per decidere su ciò che la Boulé proponeva attraverso proposte di legge dette probùleuma (da cui nasce il nostro termine problema, ossia una cosa di cui discutere per risolverla).

La politica e la piazza (o la rete)
Dall’assemblea generale erano esclusi quei cittadini che non avessero entrambi i genitori ateniesi. Una democrazia da un certo punto di vista “oligarchica” dunque, a cui solo un numero limitato di abitanti aveva accesso tant’è che anche illustri cittadini, come lo  stagirita Aristotele, erano esclusi dalle decisioni. Nonostante ciò la voglia di partecipazione non era poi così forte nei fortunati aventi diritto. Spesso erano in pochi a presentarsi alle assemblee pubbliche, tanto che  Pericle fu costretto a fissare intorno ai seimila voti la soglia da raggiungere per ritenere valida una votazione. Inoltre per invogliare la gente a partecipare stabilì un compenso, per il giorno di votazione: due oboli per ogni cittadino che avesse deciso di partecipare. Non era dunque l’ecclesìa, la piazza o come diremmo  oggi “la rete”, a proporre le cose da fare. La Boulé avanzava le proposte di legge che, una volta approvate dall’agorà, venivano esaminate dagli Arconti, la suprema magistratura ateniese, che potevano decidere i tempi e i modi con cui applicare una determinata legge e potevano, alla fine dei giochi, bloccarla, con buona pace della partecipazione e dell’iniziativa popolare.

Se la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e democratica è un diritto sacrosanto, affermare che la politica debba sempre ascoltare la piazza o la rete, che oggi  ha di fatto preso il posto dell’antica agorà, è un’ipocrisia demagogica. Dare ascolto alla piazza, alla rete o all’opinione comune, non è una garanzia assoluta per chi voglia prendere delle buone decisioni. Ne è una prova il pessimo risultato che ottenne il “referendum popolare” messo in piedi da Pilato per decidere se crocifiggere il ladrone Barabba o Gesù.

Tornando a tempi a noi più vicini, forzare le scelte del Parlamento attraverso il ricorso alla piazza non sempre porta a buone conseguenze. Ad esempio in occasione dell’entrata in guerra dell’Italia nel Primo conflitto mondiale nel 1915, la maggioranza delle forze politiche in Parlamento era  contraria all’intervento armato. Ma i cosiddetti interventisti riuscirono a scavalcare la volontà della maggioranza parlamentare grazie alla spinta di una piazza molto agitata che spingeva per l’entrata in guerra. Nei mesi precedenti si erano susseguiti in tutta la penisola dibattiti e manifestazioni pubbliche a favore della guerra che si intensificarono all’inizio del cosiddetto “radioso maggio” . Alla fine la piazza ottenne l’ingresso dell’Italia nel conflitto ma le conseguenze non furono certo delle migliori.

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