La Costa d’Avorio è stata trascinata per mesi in una lotta fratricida. Da un lato, presidenti eletti più o meno democraticamente e, dall’altro, oppositori che ne contendono il potere. Laurent Gbagbo, presidente della nazione dell’Africa occidentale dal 2000 fino alle elezioni dell’autunno 2010, si è visto superare dal suo sfidante. La Commissione elettorale del Paese ha confermato con il 54,1 per cento dei voti la vittoria di Alassane Outtara. Una sconfitta che Gbagbo però non ha accettato.

L’ex presidente ivoriano ha prima fatto invalidare dalla Corte costituzionale un numero sufficiente di schede per essere dichiarato vincitore, e poi, dopo alcuni mesi di stallo, è arrivato ai ferri corti con Outtara. Un’escalation drammatica, segnata da violenze e fosse comuni. A farne le spese sono prevalentemente i civili: secondo i dati dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, un milione di persone hanno dovuto lasciare le loro case.
A rendere ancora più complesso il panorama è stato il comportamento dell’Onu. Eletto presidente nel 2000, Gbagbo è rimasto in carica benCartina_costa_davorio oltre i cinque anni di presidenza previsti dal suo mandato. Nel 2005 fu decisivo l’appoggio dell’Unione africana e delle Nazioni unite che ritennero il clima troppo instabile per poter indire nuove elezioni. Dopo cinque anni di prorogatio, c’è stata la svolta dell’autunno scorso che ha cambiato di nuovo le carte in tavola. La massima organizzazione internazionale ha, sì, appoggiato Outtara, il legittimo vincitore, ma l’ha fatto schierando, manu militari, i caschi blu. La risoluzione 1975 del consiglio di sicurezza dell’Onu ha, infatti, autorizzato la missione Onuci (Opération des Nations Unies en Côte d’Ivoire) a usare le maniere forti contro l’esercito di Gbagbo, accusato di utilizzare armi pesanti contro i civili. Non solo: i caschi blu che hanno attaccato il palazzo presidenziale sono stati affiancati dai soldati francesi della missione “Liocorno”. Particolare non da poco, se si considera che la Francia è stata per anni il Paese colonizzatore di gran parte dell’Africa occidentale, insieme con gli inglesi. Perché tutto questo zelo diplomatico, spesso assente in altri frangenti?
La Costa d’Avorio è il maggiore produttore ed esportatore di cacao (il 34% della produzione mondiale secondo il Fondo monetario internazionale). Un giro di affari da miliardi di dollari che fanno gola alle grandi multinazionali dell’agroalimentare. La redistribuzione dei profitti lascia, però, in una posizione marginale i coltivatori ivoriani. La logica usata da imprese come le americane Cargill e Adm (Archer Daniels Midland) è contrattare il prezzo con ogni singolo produttore così da tenerli divisi. Il divide et impera serve a massimizzare i profitti, tenendo bassi i costi. Sul mercato internazionale un chilo di cacao costa 2,75 euro e appena la metà va ai coltivatori. Dai guadagni vanno poi detratte le tasse e, in molti casi, le tangenti che bisogna pagare ai poliziotti per evitare sequestri. Una situazione che contribuisce a tenere la maggior parte della popolazione nella povertà, poiché i bassi guadagni non stimolano i consumi e accrescono la disoccupazione.
Lo scontro tra Outtara e Gbagbo ha determinato degli effetti negativi anche per molti altri giocatori economici che hanno interessi in Costa d’Avorio. Il prezzo del caffè, per esempio, nel mese di febbraio ha fatto registrare un’impennata del 74%, rispetto all’anno precedente (dati del Fondo monetario internazionale). Un’oscillazione che ingolosisce gli investitori, pronti a speculare, ma che mettono, invece, in allarme gli imprenditori che hanno attività nello stato africano. Emblematico il caso del francese Vincent Bollorè. Il manager bretone, con ruoli in Mediobanca e Generali, ha molti interessi in Costa d’Avorio. Tramite una holding, la Bal (Bollorè African Logistics), Bollorè controlla il porto di Abidjan, la capitale economica, e la Sitarail, una società che gestisce il traffico ferroviario verso i porti del Paese. La guerra ha rallentato le esportazioni e, di riflesso, gli affari di Bollorè. Non è forse un caso, allora, che Nicolas Sarkozy, amico di Vincent, abbia schierato in prima linea i soldati francesi.cacao-large
Laurent Gbagbo si è reso ancora più inviso alla comunità internazionale con un gesto eclatante: lo sbarramento delle strade che portano alle miniere di diamanti. Secondo alcune stime nel Paese ivoriano sono estratti cristalli per un valore di 160 mila carati su una totale, nel mondo, di 120 milioni di carati. La Costa d’Avorio conta meno giacimenti della vicina Liberia (patria dei “blood diamonds”), ma rimane comunque uno snodo centrale per il mercato nero. In questo marasma la Repubblica Popolare Cinese (una dei cinque componenti permanenti del Consiglio di sicurezza) è l’unico Stato con interessi in Costa d’Avorio che non si è opposto. Avrebbe potuto fare ricorso al diritto di veto, ma non l’ha fatto. Perché? Il motivo è facile da comprendere: i cinesi hanno bisogno di materie prime e petrolio per sostenere il loro grande mercato interno, e per farlo è necessario stringere accordi bilaterali con quei Paesi del continente nero in grado di fornire beni a basso costo. Nell’ultimo decennio Pechino ha perfezionato un nuovo tipo di colonialismo: non territoriale, ma economico. Una battaglia tattica giocata colpo su colpo con gli altri contendenti. Si fa un passo indietro in Costa d’Avorio, per poi farne due da un’altra parte (come in Sudan). E allora, come nel risiko, americani e transalpini hanno rilanciato i dadi, e non possono fare altro che aspettare la prossima mossa del gigante asiatico. Con buona pace dell’indipendenza delle popolazioni africane.

 

 

Export Tax and Pricing Power: Two Hypotheses on the Cocoa Market in Côte d’Ivoire
comunicato stampa Onu sulla risoluzione 1975 del 30 marzo 2011

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