La lotta per la salvaguardia dei valori storico-naturali del nostro paese è la lotta stessa per l’affermazione della nostra dignità di cittadini, la lotta per il progresso e la coscienza civica contro la provocazione permanente di pochi privilegiati onnipotenti”, scriveva nel 1961 Antonio Cederna, il primo ad essersi opposto alla cementificazione selvaggia dell’Appia Antica. Una battaglia che condusse sino ai suoi ultimi giorni. A distanza di 18 anni la questione resta ancora irrisolta.

L’Appia Antica è sicuramente la via romana che meglio si è conservata. Fu aperta da Appio Claudio Cieco, censore del 312 a.C., per congiungere Roma a Capua. Più tardi fu prolungata fino a Benevento e infine fino a Brindisi, il più importante porto per la Grecia e l’Oriente nell’antichità. Iniziava da Porta Capena, presso il Circo Massimo, punto dal quale si iniziavano a contare le miglia. Fu costruita con grandi pietre levigate e perfettamente combacianti, poggiate su uno strato di pietrisco che assicurava tenuta e drenaggio. Una tecnica rivoluzionaria per l’epoca. Aveva un percorso in gran parte rettilineo e una larghezza (4,10 metri) che consentiva la circolazione in entrambe i sensi, era affiancata da un duplice percorso pedonale e servita da pietre miliari. Tutte queste caratteristiche le valsero l’appellativo di Regina Viarum (Stazio, Silvae 2, 12). Quasi subito lungo la via furono costruiti numerosi monumenti funerari eretti da illustri famiglie romane, come gli Scipioni, i Metelli e i Servilii, ma anche colombari di confraternite. Anche i cristiani costruirono qui alcune delle loro più importanti catacombe, come quelle di S. Callisto, S. Sebastiano e Domitilla. Dalla fine del II secolo a.C. la via si presentava con una doppia linea di sepolcri, di diversa tipologia e epoca, recanti spesso un’iscrizione che invitava il passante “a fermarsi, a leggere, a ricordare”.

Roma-Bindisi in otto giorni
Nel tratto suburbano erano presenti anche alcune ville, tra le quali la più importante è sicuramente quella dei Quintili. Ma quanto tempo era necessario per compiere l’intero percorso da Roma a Brindisi? Ebbene, erano necessari otto giorni, usando carri a quattro ruote. A dirlo è Quinto Orazio Flacco nel suo Iter Brundisinum, un racconto composto a seguito di un viaggio compiuto nel 37 a.C. in compagnia di amici letterati e poeti, tra cui Mecenate e Virgilio. Il convoglio era composto anche da un nutrito seguito di servitori, carri per i viaggiatori, animali da soma per i bagagli e persino il buffone Sarmento, che doveva rallegrare la brigata nelle sue soste. Il racconto, oltre a darci notizia delle antiche località che si attraversavano, è un’importante testimonianza di come doveva svolgersi il viaggio lungo quella che ormai era diventata la principale via di comunicazione del mondo mediterraneo. Sarà soltanto la caduta degli imperi romani, prima d’Occidente poi d’Oriente, che farà decrescere rapidamente l’importanza della Regina viarum nella circolazione delle merci e delle persone. Nel tempo però lungo la via Appia si sono stratificate testimonianze storiche, culturali e artistiche di grandissimo valore che oggi costituiscono un patrimonio unico al mondo. Un patrimonio da tutelare.

 
La battaglia di Antonio Cederna
La cultura moderna ha rivolto verso l’Appia un interesse eccezionale grazie al quale si è cercato da subito di proteggerla. E’ del 1809 la prima proposta per la realizzazione di un Museo all’aperto della Via Appia, sebbene sarà realizzato da Canina più tardi (tra il 1853 e il 1855) dal III a IX miglio della strada. Furono eseguiti interventi di recupero e restauro dei monumenti e si procedette all’acquisizione al pubblico demanio di parte della fasce con i monumenti nel tratto tra Cecilia Metella e Frattocchie. Documenti d’archivio e  resoconti di viaggiatori testimoniano che per circa un decennio la strada fu tenuta bene tanto che i monumenti erano tutti visibili. I primi provvedimenti per costituire una zona monumentale che andasse dal Campidoglio all’Appia risalgono invece alla appia percorsofine dell’800, quando, divenuta Roma capitale d’Italia, ci si rese conto che era necessario salvaguardare quelle aree che per la loro valenza storica costituivano il simbolo di Roma antica. Era il 1887. Il fine era quello di avviare interventi di conoscenza e valorizzazione di una parte importante della città in occasione dei lavori dell’AA. Il Parco Archeologico dell’Appia Antica fu individuato concettualmente anche nel Piano Regolatore Generale del 1931 dove, sebbene non ne venisse emessa una normativa d’uso vincolante, fu stabilita una zona di rispetto di centocinquanta metri dalla strada dove era vietato costruire e furono indicati limiti e accorgimenti da usare per i nuovi edifici. A mancare però era una concezione della tutela che fosse indirizzata alla conservazione tanto del contesto quanto dell’ambiente monumentale. E infatti non passò troppo tempo che simili prescrizioni, troppo permissive, fossero superate. La disponibilità dell’Amministrazione Comunale a sostenere gli interessi di privati fece il resto. Il paesaggio, fino ad allora intatto, fu così manomesso con la costruzione di strade e case tra le rovine antiche, in alcuni casi gli architetti si divertivano a trasformare gli stessi monumenti in edifici. L’Appia era stata irrimediabilmente ferita. Il mondo intellettuale insorse. Primo tra tutti Antonio Cederna che, insieme all’associazione Italia Nostra, diede inizio ad una dura campagna di denuncia degli scempi commessi, sottolineando che “l’integrità monumentale e paesistica della Via Appia si mantiene solo con l’integrità della campagna adiacente e qualunque nuova costruzione ne compromette irrimediabilmente lo stato dei luoghi”. Cederna accusò la legge 1497/39 del 1953, con la quale il Ministero aveva vincolato la zona dell’Appia Antica da Porta San Sebastiano a Bovillae dichiarandola di notevole interesse pubblico, di essere “volutamente inefficace e ipocrita” dal momento che i dipendenti ministeriali continuavano a concedere i nulla osta per costruire. Altro controsenso per lui fu l’approvazione, nello stesso periodo, del Piano Particolareggiato che autorizzava la costruzione di edifici e strade che tranciavano l’Appia. Nel 1954 il Consiglio comunale all’unanimità sospese tutte le licenze edilizie in corso. Furono avanzate diverse proposte di legge per la demolizione degli edifici abusivi e di quelli sorti dopo il 1944, ma nessuna di esse trovò seguito.  Solo nel 1965 viene finalmente sancita la salvaguardia integrale dell’Appia attraverso un Piano Regolatore che destina il territorio (2500 ettari) a Parco Pubblico con divieto di edificabilità “per interessi preminenti dello Stato” al fine di garantire “una integrale tutela la quale soltanto può ritenersi adeguata ai suoi eccezionali valori paesistici, ambientali, archeologici, monumentali” e assicurarne il godimento da parte del pubblico per “l’eccezionale interesse culturale, universalmente riconosciuto al complesso archeologico dell’Appia Antica”.

appia giornaleUn Parco naturale ma non archeologico
La richiesta dell’istituzione di un Parco diventa sempre più pressante e trova tra i suoi sostenitori anche il sindaco di Roma Giulio Argan che propone di creare un grande Parco Archeologico nel centro di Roma collegato con quello dell’Appia Antica. Seguono anni di “battaglia” durissima, di difficoltà e ostacoli sia politici che giuridici. Il PRG del 1965 sembrava la premessa per l’istituzione di un Parco Archeologico che fungesse da cerniera tra l’Appia e la zona archeologica centrale cittadina. Invece nel 1988 (L.R. 66) è stato creato un Parco Regionale, il Parco dell‘Appia Antica, delimitato da Mura Aureliane, via Ardeatina, via Tuscolana e Fosso delle Cornacchiole. Si tratta di un’area protetta di circa 3400 ettari comprendente la via Appia per un tratto di 16 chilometri, la valle della Caffarella (200 ettari), l’area archeologica della via Latina, l’area archeologica degli Acquedotti (240 ettari), la Tenuta di Tormarancia (220 ettari) e quella della Farnesiana (180 ettari). Sul sito ufficiale del Parco si legge che le sue finalità sono “la conservazione e la valorizzazione del territorio in esso compreso, per permettere ai cittadini il godimento di straordinarie bellezze paesaggistiche, naturalistiche e storico artistiche”. Il problema è che non si tratta di un Parco Archeologico. A spiegarlo è Rita Paris, direttore della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma: “il Parco è stato istituito con un’impostazione naturalistica che include la zona nelle aree protette e non prevede nella sua amministrazione alcuna rappresentazione delle Soprintendenze e del Ministero. E’ quindi inadeguato alla difesa, alla valorizzazione e all’accrescimento di un patrimonio archeologico e monumentale di eccezionale rilevanza. Tale compito è rimasto affidato alla Soprintendenza Archeologica di Stato che con strumenti ordinari ha svolto un programma volto alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio, circa 1850 ettari con vincoli archeologici specifici e circa 3980 con vincolo paesaggistico. Una tale situazione crea confusione e conflitti di competenze. Inoltre è bene sottolineare che se l’area è diventata una riserva naturale è grazie alla cura che si è sempre rivolta alla zona in virtù del suo patrimonio archeologico. E non viceversa. E’ vergognoso quindi tutelare una simile area come parco naturale e non come parco archeologico”.
Altro problema è la contraddizione normativa. La Regione infatti affida a due strumenti diversi (Piano Paesistico 15/12 e Piano del Parco) la pianificazione e la gestione del territorio, quando invece basterebbe il Piano Paesistico 15/12.
Terzo problema è il governo di un simile territorio caratterizzato dall’esistenza di un Parco Regionale che non ha competenze né titolo per occuparsi del patrimonio archeologico e paesaggistico, di uno Stato e un Comune deputati alla tutela del patrimonio culturale e di Roma Capitale con competenze su mobilità e urbanistica.

La Regione, il Comune e i vincoli urbanistici
Questa situazione, già problematica di suo, è stata aggravata dall’incapacità di Regione e Comune di fare rispettare i vincoli urbanistici di inedificabilità e dalla completa inerzia del Ministero dei beni culturali. Il risultato è un presente fatto di abusivismo, dilagare della proprietà privata e traffico. “L’abusivismo qui ha dimensione di cui tutti dovrebbero vergognarsi, sia i privati che hanno commesso gli abusi, sia le amministrazioni che hanno permesso una simile situazione” spiega Rita Paris “la mia Soprintendenza è costretta ad affrontare infiniti contenziosi solo per poter applicare le regole”. Oggi solo 50 ettari sono di proprietà dello Stato, 140 del Comune, il resto è proprietà privata. Sono ancora lontani i 2500 ettari previsti dal PRG del 1965! Nulla è stato fatto per limitare il traffico veicolare che affligge il primo tratto della via, fino a S Sebastiano, o per migliorare il servizio pubblico in alcuni casi inesistente. Nonostante le grandi difficoltà e contraddizioni la Soprintendenza in questi anni è riuscita a compiere alcuni interventi di recupero, di scavo e di restauro che hanno reso fruibili al pubblico nuove parti di questo immenso patrimonio. E’ il caso del Mausoleo di Cecilia Metella acquistato nel 2002 da privati e trasformato in centro di ricerca, del restauro della Villa dei Quintili divenuta importante attrattiva turistica, del restauro e della ridefinizione della proprietà della via Appia di cui il Demanio ha consegnato alla Soprintendenza tutto il IV miglio, del restauro della Caffarella. A sue spese sta provvedendo ad installare telecamere lungo il primo tratto della via. “L’Appia è un sito archeologico di primaria importanza” ha spiegato Rita Paris “potrebbe diventare un luogo dove sperimentare nuove forme di conservazione del patrimonio culturale e paesaggistico e dar vita a progetti legati al progresso civile della città e alla qualità di vita dei cittadini. Un po’ come è accaduto presso il muro di Berlino”. Oggi invece l’area è fatta di tante realtà disgregate. E’ necessario quindi istituire un Parco Archeologico, secondo quanto previsto dal Codice dei Beni Culturali (art.101), ma per farlo è necessario che Ministero, Regione e Roma Capitale stilino un progetto condiviso, realizzato ascoltando le associazioni e i cittadini impegnati da anni nella tutela dell’Appia. E’ necessario ridurre il traffico lungo tutto il primo tratto della strada e attivare un efficiente servizio pubblico di mobilità, utilizzando anche mezzi elettrici e accessi trasversali che valorizzino le aree laterali. Risolvere il problema degli abusi edilizi, correggendo i numerosi errori commessi. Migliorare la fruizione del patrimonio recuperato e incrementare il patrimonio pubblico: servono circa 30 milioni per “eliminare le situazioni più vergognose”. Si tratta di monumenti oggi privatizzati o di proprietà statale ma in terreni privati e quindi inaccessibili. In molti casi i monumenti sono abbandonati a se stessi dai proprietari. Tra questi urge il recupero di Casal Rotondo, un antico mausoleo trasformato in edificio privato e adibito a feste; il complesso di S. Urbano trasformato in una cucina con tanto di barbecue; i colombari di Vigna Codini, statali ma inseriti in proprietà privata. Ma la lista dei recuperi è lunga. Saranno accettate anche donazioni da parte di privati che volessero contribuire alla conservazione dei monumenti dal momento che, come è successo per la Piramide Cestia, la valorizzazione di un’opera di interesse culturale non deve essere esclusiva delle amministrazioni. I fondi saranno gestiti secondo le reali esigenze dell’area evitando inutili sprechi. Il sogno è quello di vedere finalmente l’Appia comunicare con l’area archeologica centrale e in continuità con l’area dei Castelli, esattamente come doveva essere in origine. Come diceva Curzio Maltese, amare l’Italia significa saperne dire male perché la peggior forma di patriottismo è chiudere gli occhi davanti alla realtà.

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